Ma perché voi europei non ci capite? E’ una domanda che ci siamo sentite ripetere così tante volte per le strade israeliane che ce la siamo riportata a casa e ci risuona come un mantra, come una cantilena, come quel teorema matematico che sembra impossibile da dimostrare. Un tassista al quale mancava una falange, che aveva fatto la guerra sulle alture del Golan, continuava a tradurre instancabilmente la radio, non c’è musica sui taxi, soltanto notizie, notizie e ancora notizie. Il tassista ci raccontava come in Israele si stesse combattendo una guerra per la sicurezza di tutto l’occidente e che in quel momento gli israeliani si sentivano terribilmente soli, con la compagnia valorosa degli americani, ma senza il sostegno degli europei. A dimostrazione di quanto occidente ci fosse in Israele, traduceva un servizio che parlava delle responsabilità istituzionali che hanno portato a tutti gli errori di valutazione del 7 ottobre, della cecità dell’intelligence davanti a Hamas che preparava il suo attacco. E sbottando, con trasporto e orgoglio, ci ha domandato: così funziona in un paese con i valori occidentali, le responsabilità le cerca la giustizia, non farebbe così un qualsiasi altro paese europeo, non farebbe così anche l’Italia nonostante il dolore? Un altro tassista, di Sderot, con una parte di famiglia appena venuta via dalla Francia per paura delle manifestazioni di antisemitismo, ci ha ripetuto quanto fosse frustrante questa incomunicabilità, ma più focoso dell’altro, senza mezzi termini, ha esclamato: quando vi sveglierete in Europa! Vista da Israele questa fratellanza è subita come un sentimento non corrisposto, a volte come un tradimento. Siamo andate alla ricerca di quella domanda tanto ripetuta e tanto profonda e ci siamo chieste: ma sul serio non ci capiamo? E’ pur vero che parlare con i tassisti è tra quelle regole non scritte che vanno sempre seguite, ma abbiamo scartabellato trattati, parlato con chi su queste relazioni lavora da una vita e abbiamo ricostruito la storia di quel frammento di Europa incastonato in medio oriente per capire quanto si possono mantenere somiglianze e coltivare divergenze crescendo in contesti così diversi.
Negli ultimi anni, i rapporti con Gerusalemme hanno avuto un impulso positivo. Alcuni progetti si sono fermati dopo il 7 ottobre
Israele a Bruxelles. Shirel Levi è consigliere politico per la missione israeliana presso l’Unione europea e la Nato. Vive a Bruxelles e ha seguito lo sviluppo delle relazioni tra Gerusalemme e l’Ue da vicino. Ci ha detto: “Negli ultimi anni abbiamo visto un impulso positivo, fatto di scambi, viaggi, incontri. Nel 2022 siamo riusciti a ravvivare il Consiglio di Associazione Ue-Israele, stavamo lavorando per una sessione anche quest’anno ma poi è arrivato il 7 ottobre”. Erano dieci anni che il Consiglio non si riuniva. Queste sessioni servono ad aprire discussioni, a trovare il modo di condurre sfide mondiali e di trovare la via per una cooperazione pratica. “Si lavora sul commercio, anche sul clima, saremmo stati felici di dare il nostro apporto per la Cop28 – che si è tenuta a Dubai a guerra già iniziata – Si collabora sulla tecnologia, sulla scienza, anche il progetto Horizon è stato essenziale, e pure se c’era una specie di diffidenza con l’arrivo dell’ultimo governo, i lavori non sono stati interrotti”. Poi è arrivato l’attacco di Hamas contro Israele e i piani sono cambiati. Tutto è cambiato. “Eravamo sconvolti e siamo stati grati delle visite tempestive di Ursula von der Leyen e di Roberta Metsola, ci hanno manifestato solidarietà e vicinanza con un viaggio che non è stato facile per loro da compiere. Poi sono arrivati i leader dei vari paesi membri, anche dall’Italia”. Eppure le reazioni non sono state tutte uguali. La presidente della Commissione, von der Leyen, ha dato un sostegno incondizionato a Israele molto criticato dentro alle istituzioni comunitarie; diverso è stato il timore del presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, che si è dimostrato molto preoccupato del fatto che il sud globale potesse accusare l’Ue di doppi standard. La solidarietà ha iniziato a lasciare il posto a dubbie iniziative diplomatiche, scoprendo una mancanza di unità che l’Alto rappresentante Josep Borrell ha sintetizzato così: “Io dovrei rappresentare una visione comune, ma non c’è. Ci sono approcci diversi”. Levi ammette l’esistenza di una gamma di nuance tra le reazioni, ma coglie una morale diversa: “L’Ue è una grande istituzione, ognuno ha scelto di reagire in modo diverso, non tutti sono stati calorosi alla stessa maniera, ma il messaggio generale era lo stesso”.
Dal processo di Barcellona. Non è soltanto fatto di messaggi e vicinanza, il rapporto tra l’Ue e Israele è fatto anche di accordi, piani, scambi. Il 27 novembre del 1995, un’Unione europea molto ristretta rispetto a ora si incontrò a Barcellona con dodici stati della regione del Mediterraneo per avviare l’èra di un nuovo partenariato euromediterraneo che avrebbe dovuto seguire tre obiettivi: uno politico, uno economico, uno culturale. In altri termini, il partenariato doveva garantire una nuova struttura di sicurezza ed economia, con la possibilità di beneficiare dei fondi della Banca europea degli investimenti, e di scambi tra la società civile. Ad aprire i lavori c’era l’allora ministro degli Esteri spagnolo Javier Solana che pronunciò un discorso sul superamento del passato, sulla possibilità di aprire una nuova stagione di relazioni che potesse prescindere dalle faide storiche. Il discorso piacque molto all’allora ministro Ehud Barak che era presente a Barcellona, diede man forte a Solana citando Isaia ed elogiando i presenti che avevano trasformato le spade in vomeri. Tra i convitati c’era anche Yasser Arafat. Fu un momento importante, ma a Israele rimase sempre quel fastidio di essere trattato dall’Ue come qualsiasi altro paese dell’area. I rapporti si sono evoluti ancora, l’allargamento dell’Ue ha portato Bruxelles a rivedere le sue relazioni con i paesi vicini e a lanciare la Politica europea di vicinato, molto più attraente dal punto di vista israeliano in quanto apriva una stagione di rapporti bilaterali e differenziati. Non si poteva fare altrimenti, l’economia israeliana era cresciuta molto rispetto agli altri paesi e non aveva senso tenere tutto all’interno di un unico piano di azione. C’era bisogno di un approccio in grado di seguire tre priorità: rafforzare il dialogo politico, la cooperazione in ambito della sicurezza e aumentare i contatti, per esempio con la partecipazione a progetti educativi. Oggi Israele e l’Ue sono partner commerciali, i rapporti sono regolati da un’area di libero scambio che fa parte di un accordo di associazione del 2000, che nel 2008 è stato esteso agli scambi agricoli e nel 2012 ha incluso un accordo che fornisce il riconoscimento reciproco della certificazione farmaceutica. Nel 2018, invece, l’accordo chiamato “Cieli aperti” ha rafforzato ancora le relazioni commerciali.
Berlino e Londra hanno indicato la via per un “cessate il fuoco sostenibile” a protezione dei civili a Gaza. In ordine sparso all’Onu
Numeri e sentimenti. Oggi Israele è il venticinquesimo partner commerciale dell’Ue, rappresenta lo 0,8 per cento degli scambi di merci. L’Ue, da parte sua, è il principale partner commerciale di Israele, rappresenta il 28,8 per cento dei suoi scambi. Il 31,9 per cento delle importazioni israeliane proviene dall’Ue e il 25,6 per cento delle sue esportazioni va in Ue. Il totale degli scambi tra i due partner è pari a 46,8 miliardi di euro, con l’Ue che importa soprattutto macchinari, mezzi di trasporto e prodotti chimici per un valore di 17,5 miliardi. Le esportazioni in Israele invece valgono 12,2 miliardi di euro. I legami esistono, sono forti e non sono fatti di sola economia. Shirel Levi ci ha detto che molti israeliani si sentono connessi all’Ue e allo stesso tempo isolati: “Ci sono molti cittadini con doppia cittadinanza, i legami hanno ovviamente ragioni storiche che sono importanti da enfatizzare”. E allora, perché a volte ci sentiamo così lontani? La ragione è geografica e cambia tutto, e Shirel Levi la spiega così: “Quando andiamo a parlare di politica, Israele però non si trova in Europa, si trova in medio oriente. L’Ue è un grande partner, ma a volte le cose da Bruxelles e da Israele si vedono in modo molto diverso. Le sfide che abbiamo ogni giorno sono le nostre, i traumi sono i nostri, i fardelli da sostenere sono i nostri. Può essere semplice dire da fuori cosa dovremmo fare, ma alla fine le minacce arrivano qui, le conseguenze le subiamo noi. Il nostro governo ha la responsabilità di proteggere i suoi cittadini e viene da domandarsi cosa farebbero gli altri governi nelle stesse condizioni. Capisco le critiche che vengono dall’Ue, di cui Israele condivide i valori, ma allo stesso tempo siamo sottoposti a sfide che i paesi europei non hanno, i loro cittadini non sono soggetti allo stesso tipo di minaccia”. Questo divario lo vediamo ogni giorno, in Ue come all’Onu, dove le parole contano.
L’Ue all’Onu. La ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock, e il ministro degli Esteri inglese, David Cameron, hanno pubblicato un articolo sul Sunday Times chiedendo un “cessate il fuoco sostenibile” a Gaza, definendo così la differenza con il “cessate il fuoco immediato” richiesto dall’Onu e da molti paesi europei: “Lasciateci essere chiari – hanno scritto – Non siamo convinti che chiedere subito un cessate il fuoco generico e immediato, sperando che possa in qualche modo diventare permanente, sia la via da seguire”, perché non prevede alcun impegno da parte di Hamas, che potrebbe continuare a operare e a non restituire gli ostaggi, allontanando irrimediabilmente la possibilità di una pace “duratura” che deve essere l’obiettivo gemello di chi chiede la fine delle ostilità. Germania e Regno Unito sono allineati con gli Stati Uniti che chiedono una tregua e la riconsegna degli ostaggi assieme a maggiori protezioni e aiuti umanitari per i civili di Gaza. Gli altri paesi europei si muovono in ordine sparso quando si vota all’Onu – non è stata adottata alcuna “linea europea” anche se guardando l’ultimo voto in plenaria la settimana scorsa si possono fare alcuni calcoli: diciassette paesi europei hanno votato a favore del cessate il fuoco immediato, Repubblica ceca e Austria hanno votato contro, gli altri si sono astenuti (tra cui la Germania e l’Italia).
In quest’Unione che si allarga, ognuno ha le sue minacce. In Estonia, in Polonia, in Lituania ci fanno capire spesso quanto poco in Italia capiamo la battaglia esistenziale di Kyiv. Sono paesi modellati dalla paura del vicino russo, che noi non abbiamo mai conosciuto per nostra fortuna. Così in Israele, con la sua storia modellata dai vicini, dalle guerre, dalle lotte partite dal suo primo giorno di esistenza. Si nasce da una stessa famiglia, poi ci si separa, rimane però quel tratto in comune, anche se a volte ci si sente estranei seduti attorno allo stesso tavolo quando ci si ritrova per le feste. Il 2024 sarà un anno di cambiamenti, per l’Unione europea, per l’Ucraina, per Israele. Questo è il momento di concentrarci sulle somiglianze, quelle di famiglia. Guardiamoci bene mentre siamo seduti attorno al tavolo. Buone feste.