La frontiera estrema della privacy sono i dati cerebrali. Proteggiamoli

In “Difendere il nostro cervello” Nita Farahany ci invita a considerare la questione dell’accesso esterno a ciò che succede nella nostra testa, tra utilitarismo e libertà irrinunciabili

L’ultima ridotta del liberalismo non è più questo o quello stato assediato da nemici dittatoriali, come ai tempi della Guerra fredda o (ancor oggi) dei conflitti in medio oriente; è rimasto soltanto il nostro cervello. O almeno lo sarebbe, se non venisse ormai minacciato dal mito della misurabilità, dall’ideale insomma di poter recepire e interpretare la sua attività neurale in modo tale da codificarla univocamente e da comprenderla in modo ancora più profondo di quanto non riusciamo a fare da soli. Per questo Nita Farahany – che insegna a Duke e ha un curriculum che spazia dalla genetica al diritto e alla filosofia – ci invita a Difendere il nostro cervello, come suona il titolo del suo ultimo saggio tradotto in Italia da Bollati Boringhieri.




Per i dati tecnici, che sono numerosissimi, dettagliatissimi, e che richiederebbero alcune pagine, rimando direttamente al libro, in cui la Farahany li espone in maniera piana e comprensibile. Il fulcro teorico della questione sta invece in un rompicapo (appunto): è indubbio che la possibilità di interpretare il pensiero dall’esterno può risultare benefica, in quanto ci consente di sapere se un chirurgo o un automedonte sia affaticato, se una persona che ci approccia sia malintenzionata, se convenga lavorare ancora un po’ o rimandare al giorno dopo. D’altro canto è altrettanto indubbio che trasmettere i nostri dati cerebrali allo stato, o magari a una major del settore informatico, comporta il pericolo della perdita definitiva della libertà che credevamo inattaccabile, quella interiore. Le neurotecnologie hanno fatto spaventosi passi in avanti mentre il nostro senso comune è rimasto fermo più o meno alla filosofia del Seicento. Basta aver fatto il liceo così così per ricordarsi come, secondo Cartesio, la res cogitans fosse del tutto slegata dalla res extensa, e come quindi la mente fosse incorporea, incommensurabile e libera. Questa distinzione intuitiva permane anche in filosofi meno radicali nel separarla dal corpo; Spinoza, per dire, sosteneva che l’individuo non potesse alienare totalmente la propria libertà allo stato (il cui fine “non è di trasformare gli uomini da esseri razionali in bestie o macchine” ma “di garantire che si servano della libera ragione”, scrive nel Tractatus), in quanto anche sotto il più dispotico dei governi manterrà sempre la propria inafferrabile libertà di pensiero.



Spinoza è morto da trecentocinquant’anni e dobbiamo rassegnarci: aveva torto. La progressiva riduzione del cervello a mero organo anatomico, come la milza o la tiroide, implica che la sua attività possa essere oggettivamente monitorata e vigilata; altro che res cogitans. Un’azienda può ottenere dati per capire se i suoi dipendenti sono felici; uno stato può ottenerli per capire se i suoi cittadini sono onesti. Il tutto, naturalmente, per il bene collettivo, un bene più elevato rispetto all’egoismo rinfacciato all’individuo che vuole recintare il cervello e pensare per sé.




La posizione della Farahany è sensata: lungi dal precludere l’accesso ai dati cerebrali, si tratta di stabilire giuridicamente un confine oltre cui l’obiettivo della massima felicità per il maggior numero diventa lesivo della dignità del singolo. Si tratta, insomma, di mediare fra necessario utilitarismo e libertà irrinunciabili, stabilendo una zona di autodeterminazione sul cervello da esplicitare nei trattati internazionali che regolano i diritti umani. Ad esempio, sono libero di migliorare le prestazioni del mio cervello come e quando mi pare? Sono libero di peggiorarle quando invece voglio intorpidirmi? Se rispondete di sì, non state facendo altro che riconoscere il vostro diritto di bere un caffè o un bicchiere di vino a seconda delle circostanze e dell’umore. Se rispondete di no, state dicendo che il cervello di ogni individuo è proprietà collettiva, e che è compito dello stato (o di un’azienda) vigilare affinché venga sempre mantenuto nella sua più onesta e sana naturalità, bandendo tanto il caffè quanto il bicchiere di vino. Quindi, forse, vi conviene andare a berne un paio.

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