La diplomazia è una leva strategica nella guerra contro la Russia spesso sottovalutata. Ha portato risultati concreti: forniture di armi, una crescente cooperazione con Washington, un accordo sui minerali strategici e sulla ricostruzione e un’efficace diplomazia umanitaria
Quando la Russia lanciò la sua invasione su larga scala nel febbraio del 2022, Kyiv si trovò a combattere su più fronti: quello militare, quello dell’informazione e quello, non meno decisivo, dei corridoi diplomatici delle capitali occidentali. Negli anni successivi, l’Ucraina non solo ha resistito militarmente, ma ha anche condotto una campagna diplomatica costante che ha trasformato gli aiuti militari, le partnership economiche e l’azione umanitaria in strumenti di strategia nazionale. Questa campagna – spesso sottovalutata come complemento della resistenza sul campo di battaglia – ha prodotto risultati concreti che hanno rimodellato la dinamica del conflitto: massicce forniture di armi da parte dell’occidente, una notevole ricalibrazione della politica e della retorica statunitense, una crescente cooperazione con Washington per i bombardamenti contro le infrastrutture energetiche russe, un accordo sui minerali strategici e sulla ricostruzione, e un’efficace diplomazia umanitaria che ha portato attenzione sulla questione dei bambini ucraini deportati in Russia.
All’inizio della guerra, l’Ucraina poteva contare solo su scorte limitate, provenienti in parte dai propri arsenali d’epoca sovietica e in parte da forniture statunitensi. Ma i suoi leader – in primo luogo il presidente Volodymyr Zelensky – misero rapidamente in campo un’offensiva diplomatica intensissima: visite frequenti nelle capitali europee e a Washington, una campagna di diplomazia pubblica incessante e un’accurata costruzione di maggioranze parlamentari nei paesi donatori. Il risultato fu un incremento costante dell’assistenza militare, che dalle prime forniture di armi anticarro del 2022 passò progressivamente a sistemi d’arma più complessi e sofisticati. Secondo i principali osservatori internazionali dei flussi di armamenti, l’Ucraina è divenuta tra il 2022 e il 2025 uno dei maggiori importatori di armamenti pesanti al mondo, mentre i paesi occidentali aumentavano le consegne di artiglieria, sistemi di difesa aerea e munizioni. Questo flusso non fu casuale, ma l’esito di una diplomazia mirata che seppe tradurre le esigenze del fronte in pacchetti di approvvigionamento e accordi politici con i governi donatori.
Due caratteristiche resero efficace l’approccio di Kyiv. La prima fu la personalizzazione del conflitto: il carisma di Zelensky e la sua capacità di parlare direttamente ai Parlamenti e all’opinione pubblica straniera contribuirono a orientare la volontà politica. La seconda fu la precisione delle richieste: sistemi specifici, munizioni compatibili, scadenze chiare, tutte calibrate sulle capacità produttive e sui vincoli di bilancio dei partner. La coreografia diplomatica – con visite programmate in coincidenza con i voti sui bilanci, briefing di ufficiali ucraini alle commissioni parlamentari per la difesa e appelli pubblici quotidiani – mantenne il tema dell’assistenza militare ai primi posti dell’agenda politica dei donatori, trasformando la simpatia in forniture concrete.
Se da un lato l’Amministrazione Biden garantì all’Ucraina un flusso costante di armi che permise a Kyiv di stabilizzare il fronte, dall’altro queste forniture furono sempre sottoposte a forti restrizioni, soprattutto sull’uso dei missili a lunga gittata per colpire obiettivi militari in territorio russo. La posizione ufficiale statunitense insisteva sulla necessità di limitare i rischi di escalation, ma dal punto di vista ucraino tali vincoli prolungavano la capacità di Mosca di lanciare attacchi dal rifugio sicuro dei propri aeroporti e centri logistici. Il sostegno di Biden fu cruciale, ma rigidamente delimitato: una dottrina di “escalation management” che non arrivò mai ad accogliere pienamente la richiesta ucraina di una parità strategica.
Con il ritorno di Donald Trump sulla scena politica, la diplomazia di Kyiv ha dovuto affrontare una sfida diversa e più volatile. Considerata la retorica di lunga data di Trump, ammirata nei confronti di Vladimir Putin e scettica verso gli impegni internazionali degli Stati Uniti, il timore – a Kyiv come tra molti alleati europei – è stato che Washington potesse cercare un accordo con Mosca scavalcando l’Ucraina. La paura era cresciuta dopo il primo incontro Trump-Zelensky, un confronto teso in cui l’ex presidente americano sembrava intenzionato a umiliare pubblicamente il suo interlocutore. Ma la scena gli si è ritorta contro: mentre l’atteggiamento di Trump ha suscitato critiche in patria e all’estero, Zelensky è apparso come uno dei pochi leader capaci di contraddirlo apertamente, diversamente da molti europei soliti assecondarne l’ego.
Dopo quell’incontro, Trump ha tentato di imporre all’Ucraina un cessate il fuoco, presentandolo come condizione per avviare “colloqui di pace”. Kyiv ha rifiutato, ben consapevole che una pausa nelle ostilità avrebbe solo consentito alla Russia di riorganizzarsi e rilanciare l’offensiva. In seguito, però, la diplomazia ucraina ha fatto una mossa controintuitiva: accettare in linea di principio un cessate il fuoco incondizionato, sapendo perfettamente che Putin non l’avrebbe mai sottoscritto senza aver raggiunto i suoi obiettivi militari. E’ stata una scelta di pazienza strategica: accompagnare Trump lungo un percorso diplomatico che avrebbe inevitabilmente mostrato chi davvero ostacolava la pace. L’esito ha tanto la bontà di questa scelta: il tanto pubblicizzato vertice in Alaska tra Trump e Putin si è concluso senza risultati, mostrando che è il Cremlino, non Kyiv, a rifiutare ogni compromesso.
Così sono apparsi i segnali di un cambiamento sensibile nel tono e nelle posizioni statunitensi: dichiarazioni più assertive sulla possibilità che l’Ucraina possa riconquistare i territori occupati. Kyiv è riuscita a far breccia nei calcoli della nuova Amministrazione. Con una manovra sottile ma efficace, ha neutralizzato lo scenario più pericoloso – una pace imposta a proprio svantaggio – rafforzando al contempo la propria immagine di attore razionale e coerente nella ricerca della pace. L’episodio ha dimostrato anche come, nel contesto caotico della politica interna americana, Kyiv abbia imparato a trasformare la diplomazia legata alle personalità in uno strumento strategico.
Il risultato più tangibile di questa vittoria diplomatica è stato l’aumento della capacità ucraina di colpire obiettivi militari e infrastrutture energetiche in Russia, in particolare le raffinerie di petrolio. Secondo varie fonti, nel 2025 gli Stati Uniti hanno progressivamente ampliato la condivisione di intelligence utilizzata da Kyiv per pianificare tali attacchi. Si è trattato meno di una concessione improvvisa che dell’effetto cumulativo di successivi, discreti successi diplomatici: autorizzazioni più chiare, regole d’ingaggio definite e una cooperazione di targeting più efficace. Questi cambiamenti hanno ampliato il raggio operativo ucraino e rallentato il recupero del settore energetico russo. Tali decisioni statunitensi riflettono la capacità di Kyiv di spingere i propri alleati a rivedere gradualmente le soglie della loro cautela.
Tra i risultati più rilevanti della diplomazia ucraina vi è anche la riformulazione dell’accordo sui minerali strategici e sulla ricostruzione con gli Stati Uniti. Ciò che inizialmente appariva come un’intesa fortemente asimmetrica – definita da molti a Kyiv come “coloniale nello spirito” – è stato trasformato in un quadro più equilibrato. La prima bozza, circolata all’inizio del 2025, concedeva alle compagnie americane un accesso quasi illimitato alle risorse del sottosuolo ucraino, dal litio al titanio, subordinando di fatto l’autorità regolatoria ucraina e consegnando il controllo strategico a investitori statunitensi. Per Kyiv la proposta rischiava di riprodurre la stessa dipendenza da cui cercava di affrancarsi – scambiare la sovranità economica con eventuali garanzie di sicurezza. La risposta ucraina è stata ferma e insolitamente coordinata: governo, Parlamento e società civile hanno agito insieme, facendo leva sull’opinione pubblica e sul crescente disagio dei partner europei di fronte ai contenuti dell’accordo. Kyiv è riuscita così a bloccare il processo e a costringere Washington a riaprire i negoziati. Ne è seguita un’intensa revisione che ha modificato progressivamente tono e termini dell’intesa. La versione finale, firmata nell’aprile 2025, mantiene una stretta cooperazione tra Ucraina e Stati Uniti nel campo dei minerali critici e del finanziamento della ricostruzione, ma sotto un nuovo quadro di gestione e supervisione congiunta.
Il testo resta in parte opaco – soprattutto per quanto riguarda la ripartizione dei profitti, gli standard ambientali e i meccanismi di arbitrato – ma non sancisce più il controllo unilaterale americano sugli asset ucraini. La cooperazione viene ora definita come un investimento reciproco nella ricostruzione, non più come una semplice estrazione di risorse. Il cambiamento ha un valore tanto simbolico quanto sostanziale: segna la crescente sicurezza diplomatica di Kyiv e la sua capacità di resistere alla logica della dipendenza, anche nel confronto con il suo alleato più potente.
Il successo diplomatico dell’Ucraina non si è limitato alle sale governative o ai vertici internazionali. Una dimensione cruciale – benché spesso trascurata – è stata quella della diplomazia umanitaria, in cui istituzioni statali e società civile hanno agito in modo complementare, rafforzando reciprocamente le proprie narrative e obiettivi. Fin dai primi mesi dell’invasione, le organizzazioni civiche ucraine, i gruppi di veterani e le reti della diaspora hanno avuto un ruolo centrale nel plasmare la percezione occidentale della guerra. Hanno organizzato campagne dal basso, documentato crimini di guerra e fatto pressione sui parlamenti in Europa e America del nord. Pur avendo un focus morale e umanitario – la protezione dei civili, il ritorno dei bambini deportati, la giustizia per le vittime – la loro azione ha avuto anche una valenza strategica: sottolineando il costo umano dell’aggressione russa, hanno contribuito a legittimare la richiesta di ulteriori forniture di armi all’Ucraina. E’ stata una forma sottile ma efficace di pressione: trasformare la compassione in capacità militare.
Tra le cause più emotivamente forti vi è stata quella della deportazione dei bambini ucraini in Russia, che Kyiv e le istituzioni internazionali hanno definito un crimine di guerra e uno strumento di cancellazione culturale. Le organizzazioni civili hanno raccolto testimonianze, identificato minori sottratti e lavorato con ong internazionali per mantenere alta l’attenzione mediatica. Questa pressione costante ha aperto spiragli inattesi a Washington, dove le autorità ucraine hanno compreso che un appello diretto a Donald Trump, su basi morali o legali, sarebbe stato inutile. Kyiv ha scelto allora una via più creativa. Comprendendo la dinamica interna del cerchio trumpiano e la centralità dell’immagine familiare del presidente, la diplomazia ucraina ha avviato contatti riservati con Melania Trump, la cui eventuale partecipazione sarebbe stata insieme emotivamente efficace e politicamente conveniente per l’entourage del marito. Per Kyiv è stata una mossa calcolata e intelligente: coinvolgere Melania Trump significava soddisfare la vanità e la sensibilità della famiglia Trump, portando avanti al contempo un’agenda profondamente umanitaria. Il risultato, pur limitato nei numeri, è stato simbolicamente potente. Alcune riunificazioni familiari sono effettivamente state ottenute, e la questione dei bambini deportati è tornata al centro dell’attenzione internazionale. Il coinvolgimento di una figura come Melania Trump ha contribuito anche a disinnescare possibili ostilità nel campo trumpiano, trasformando quella che poteva essere una disputa geopolitica in una narrazione di compassione e maternità. Il ventaglio diplomatico che Kyiv ha costruito non porrà fine alla guerra da solo. Ma, considerati nel loro insieme, queste mosse mostrano come l’Ucraina abbia trasformato la diplomazia in un autentico strumento di sopravvivenza strategica.
Dall’ottenimento di concessioni sempre maggiori sulle forniture militari alla rinegoziazione di un accordo sui minerali nato in forma quasi coloniale; dall’abilità nell’orientarsi tra gli umori di Trump e Putin alla mobilitazione della società civile per cause umanitarie e politiche, Kyiv ha imparato ad agire con agilità in un mondo di poteri diseguali. Il suo successo non consiste solo nell’aver ottenuto aiuti materiali, ma nell’aver saputo padroneggiare linguaggi, psicologie e tempi della politica internazionale – trasformando la vulnerabilità in leva e il capitale morale in risultati politici concreti.