Inneggiare alla Palestina libera “dal fiume al mare”, con l’implicita cancellazione di Israele, è una forma di antisemitismo e di fascismo. Restarne indifferenti perché a farlo sono manifestanti amici o politici del porprio partito è una macchia indelebile sulla sinistra
Douglas Murray, grande giornalista e noto commentatore britannico, all’indomani dell’annuncio della fine della guerra a Gaza ha offerto uno spunto di riflessione utile da mettere a fuoco per provare a ripetere con forza le due parole necessarie da ricordare per evitare che ciò che abbiamo visto il 7 ottobre del 2023 possa diventare nuovamente realtà: “mai più”. Sul piano militare, lo sappiamo, Israele ha vinto la sua guerra in medio oriente e le possibilità di ricevere un’altra ferita come quella del 7 ottobre sono più limitate rispetto a qualche tempo fa. Ma mentre la guerra a Gaza volge al termine, scrive Murray, c’è un’altra guerra mondiale che per l’ebraismo è appena iniziata e quella guerra riguarda un fenomeno grave, drammatico, che coincide con l’antisemitismo risvegliatosi negli ultimi anni e che drammaticamente potrebbe continuare a diffondersi. La guerra combattuta contro gli ebrei in occidente è una guerra più difficile da vincere rispetto a quella che Israele ha vinto sul campo in medio oriente.
E per capire le difficoltà che ha questa guerra nell’essere vinta vale la pena concentrarsi sull’Italia, riavvolgere il nastro e tornare ad alcune scene viste prima dell’annuncio della pace a Gaza, e in piccola misura anche dopo. Parliamo naturalmente delle infinite manifestazioni di solidarietà al martoriato popolo di Gaza, manifestazioni che hanno offerto agli osservatori, prima dell’accordo di pace, molti spunti di riflessione intorno ai quali ragionare. Si è riflettuto molto sui confini tra il pacifismo genuino e quello meno genuino. Si è riflettuto molto sui confini tra il sostegno a una causa giusta, la libertà di Gaza, e una ingiusta, la vittoria dei terroristi. Si è riflettuto molto sull’utilizzo delle parole, sui confini tra i messaggi finalizzati a combattere la violenza e quelli finalizzati ad alimentarla. Ma si è riflettuto in modo superficiale intorno a un tema sollevato giorni fa sul Foglio dal nostro Adriano Sofri, un tema relativo alle molte, troppe, parole d’ordine oscene che hanno dato alle manifestazioni una connotazione violenta, nonostante la presenza di una moltitudine di manifestanti evidentemente pacifica. La questione è semplice e riguarda la guerra contro l’antisemitismo. Tema: come si fa a non essere complici di un linguaggio violento, quando lo si trova accanto a sé? Il riferimento esplicito, in questo caso, è a tutte le forze politiche che quando offrono il proprio abbraccio a una manifestazione e scoprono che in quella manifestazione vi sono anche messaggi violenti hanno due strade di fronte: ignorare o condannare. Il linguaggio della violenza – che a volte produce più violenza della violenza stessa, perché la violenza fisica si può contrastare, a volte, mentre la violenza verbale è come un fiume carsico, diventa consuetudine, diventa prassi, diventa normalità, diventa virale – per essere condannato deve essere prima riconosciuto e l’impressione che si ricava dalle settimane di manifestazioni che hanno preceduto la pace in medio oriente è che la frase diventata sinonimo di libertà per un pezzo non irrilevante di pro Pal si sia trasformata per troppo tempo in sinonimo di “liberazione” senza se e senza ma, come se fosse l’emblema di un nuovo 25 aprile.
La frase è sempre quella ed è stata cantata la scorsa settimana di fronte al comune di Bologna, mentre il sindaco Matteo Lepore, Pd, conferiva la cittadinanza a Francesca Albanese, stando bene attento a non pronunciare la parola ostaggi, visto mai la signora avesse potuto sentirsi a disagio. From the River to the Sea, Palestine will be free. Il coro, nelle città, di solito è stato così intonato: Bologna (o qualsiasi altra città) sa da che parte stare, Palestina libera dal fiume al mare. Suona bene, la frase scorre, lo slogan entra nelle orecchie, presto forse verrà usato come ritornello in qualche canzone pop, come colonna sonora di qualche serie tv, ma la frase ha e aveva un significato preciso: la Palestina non deve essere solo uno stato, deve essere libera di estendersi dal fiume Giordano al mare Mediterraneo, cioè sull’intero territorio oggi occupato da Israele. In pratica, se non fosse chiaro, chi ha intonato quel ritornello, molto musicale, ha tifato per la cancellazione dello stato di Israele, e tifare per la cancellazione dello stato di Israele non vuol dire combattere per i diritti dei palestinesi, significa combattere per far coincidere antisionismo e antisemitismo.
Il dato sul quale vale la pena riflettere, anche oggi, anche oggi che la pace è qualcosa di più di un’astratta idea futura, non riguarda tanto la disinvoltura di chi intona questi cori ma riguarda il modo incredibile in cui il fronte progressista mentre ha osservato questi cori ha scelto di rimanere silente, mostrando una indifferenza che in questo caso rasenta la complicità e una difficoltà assoluta a considerare quelle parole come il sintomo di una pulsione che pure la sinistra non ha mai avuto difficoltà a condannare: non si tratta di semplice estremismo, si tratta di fascismo. Chiamare le cose con il loro nome, riconoscere una deriva, di solito aiuta a inquadrarla, a perimetrarla, a definirla, a comprenderla, e l’assenza invece assoluta di una qualsiasi parola del mondo della sinistra di fronte al fascismo di chi inneggia e ha inneggiato alla cancellazione di Israele, con una totale adesione alla piattaforma antisemita e antisionista dell’islam terrorista, che considera una priorità la cancellazione dello stato ebraico e considera legittima la trasformazione conseguente di un ebreo in un simbolo del male, è una macchia indelebile sulla sinistra contemporanea e ha richiamato in qualche modo alla memoria alcuni fotogrammi di segno opposto di fronte ai quali la sinistra invece ha storicamente avuto una reattività maggiore.
Chiudete gli occhi per un istante e pensate a cosa sarebbe successo se la destra fosse rimasta silente di fronte a manifestanti scesi in piazza a inneggiare al fascismo, allungando il braccio per un saluto romano. Si sarebbe detto giustamente che la destra è complice, che la destra è in imbarazzo, che la destra è ostaggio dell’estremismo, che la destra non sa fare i conti con il suo passato, che la destra ha scheletri nell’armadio che non sa come gestire, e che di volta in volta si presentano come fantasmi. La differenza tra i saluti romani, modello Acca Larentia, e le frasi “dal fiume al mare”, non è solo nella riconoscibilità di un gesto, tutti sanno cosa vuol dire un saluto romano e non tutti sanno cosa vuol dire dal fiume al mare, ma è nella capacità di sapere chiamare sempre le cose con il loro nome, è nella capacità di considerare come figli del fascismo non solo i frutti avvelenati che crescono sull’albero della destra ma anche quelli altrettanto tossici che crescono sugli alberi del centrosinistra. Fischiettare di fronte a manifestanti amici o peggio politici del proprio partito che giocano con la cancellazione di Israele e dunque con l’antisemitismo e non solo con l’antisionismo non significa solo banalizzare ma significa aver fatto una scelta: considerare un fascismo inaccettabile se viene da destra, accettabile se viene da sinistra.
E nel caso specifico, la differenza non è solo nel colore. E’ anche nei fatti: c’è un fascismo pericoloso che rievoca una stagione per fortuna chiusa del passato, c’è un fascismo del presente che rievoca una stagione aperta della contemporaneità. Essere antifascisti e condannare solo i fascismi facili non significa essere contro l’estremismo. Significa essere indifferenti. Significa considerare una violenza inaccettabile e un’altra accettabile. E fino a che i leader del centrosinistra non chiameranno le cose con il loro nome dimostreranno di non avere problemi a sentire riecheggiare anche nei propri partiti slogan che puntano a trasformare il terrorismo in una forma genuina di celebrazione di un nuovo e nefasto 25 aprile. E dimostreranno di essere poco interessati non solo a combattere contro tutti i fascismi ma a dire ad alta voce le due parole necessarie per permettere alla guerra contro l’antisemitismo di vincere: non “from the river to the sea” ma semplicemente “mai più”.