Il presidente americano prova a correre sulle normalizzazioni con Israele. Ma il suo “pano” resta un’idea più che una realtà. Ecco chi frena
Tel Aviv, dalla nostra inviata. La foto dei leader a Sharm el Sheikh è importante ma non farà la storia, nonostante il presidente americano Donald Trump abbia tentato fino all’ultimo di trasformare l’incontro per la firma dell’accordo raggiunto sul futuro di Gaza nella prima espressione del nuovo medio oriente. Trump è arrivato prima in Israele sapendo di trovare l’acclamazione di un paese che lo reputa l’artefice del piano per salvare gli ostaggi e l’unico in grado di controllare il primo ministro Benjamin Netanyahu. Mentre l’Air Force 1 iniziava la discesa nei cieli di Tel Aviv per atterrare all’aeroporto Ben Gurion, ha sorvolato la spiaggia su cui era stata disegnata una bandiera israeliana con la scritta “casa” in inglese ed ebraico che partiva dal profilo disegnato di Trump. Il vero motivo della visita del presidente americano in Israele non era tanto il discorso alla Knesset, il Parlamento israeliano, e neppure la volontà di andare a raccogliere di persona i ringraziamenti che l’intero paese aveva già espresso in abbondanza ai suoi emissari, Steve Witkoff e Jared Kushner. Il motivo che più lo interessava, il presidente lo ha rivelato subito dopo l’atterraggio e la breve cerimonia in aeroporto.
Una volta salito in macchina con il primo ministro Netanyahu, Trump ha iniziato a parlare del vertice che si sarebbe tenuto subito dopo in Egitto, dal titolo “Peace 2025”, Pace 2025, organizzato dal presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi. Netanyahu non è mai stato nella lista degli invitati e Trump ha provato a porre rimedio, organizzando immediatamente una telefonata a tre, un formato che il presidente americano ha usato già durante l’ultima visita del premier israeliano a Washington, quando prima di annunciare il piano per il cessate il fuoco a Gaza, ha convinto Netanyahu a scusarsi al telefono con il premier del Qatar al Thani. Per la prima volta dopo anni, Netanyahu e al Sisi si sono parlati e il presidente egiziano ha invitato il premier israeliano a partecipare al vertice. Poco dopo, Trump avrebbe deciso di puntare ancora più in alto, tentando di assicurarsi la presenza del pezzo forte degli Accordi di Abramo da implementare, il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman, e ottenendo soltanto la partecipazione del ministro degli Esteri di Riad. Nel tentativo di costruire questa coalizione che, se messa assieme, potrebbe davvero rivoluzionare il medio oriente, il presidente americano avrebbe anche pensato di far parlare Netanyahu con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e con il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen.
Per meno di un’ora tutto quello che era stato sempre impossibile era sembrato vicinissimo e i media israeliani hanno iniziato anche a parlare di un viaggio imminente del presidente indonesiano Prabowo Subianto, anche lui possibile futuro tassello degli Accordi di Abramo. La promessa di un medio oriente nuovo, che Trump continua a fare, sembrava scrollarsi di dosso il torpore della progettualità e diventare invece qualcosa di reale con il vertice di Sharm el Sheikh, invece le smentite sono arrivate tutte all’improvviso. Prima l’ufficio stampa del governo israeliano ha rilasciato un comunicato in cui Netanyahu ringraziava per l’invito in Egitto ma informava che a causa delle feste era tenuto a declinarlo. Poi l’Indonesia ha smentito la visita di Subianto. Trump però ha tenuto il suo discorso alla Knesset, ha lodato il suo amico Bibi, ha ascoltato il capo dell’opposizione Yair Lapid, ha esortato i due ad andare d’accordo il più possibile, quasi mostrando una simpatia per una coalizione in Israele che per ora improbabile, e ha concluso promettendo che il momento della pace in medio oriente è davvero iniziato. Ha promesso un accordo sul nucleare con la Repubblica islamica dell’Iran, ha incitato i palestinesi a cercare di costruire uno stato rinunciando al terrorismo, ha lodato ancora e ancora il progetto degli Accordi di Abramo. La realtà però è molto diversa da come la immagina Trump e Netanyahu avrebbe dovuto declinare l’invito di al Sisi perché Erdogan minacciava di non andare più a Sharm el Sheikh, altri leader hanno fatto sapere di non gradire Bibi in mezzo a loro per il mandato d’arresto spiccato dalla Corte penale internazionale, e per Bin Salman una stretta di mano fra il premier israeliano e il leader dell’Anp è prematura.
Durante l’incontro si è parlato della ricostruzione di Gaza e alla fine il capo della Casa Bianca, i presidenti turco ed egiziano e l’emiro del Qatar hanno firmato l’accordo per porre fine alla guerra a Gaza. Non c’era Hamas, che ovviamente non è riconosciuto come governo legittimo in quanto gruppo di terroristi e, secondo l’accordo, deve essere estromesso, ma non c’era nemmeno Israele. “Il medio oriente è bizzarro”, ha commentato il giornalista israeliano Ben Caspit.