Il Nobel ad Aghion e Howitt: innovazione è anche distruzione

Dalla genesi delle idee al loro impatto sui mercati. Mokyr spiega come nasce l’innovazione, Aghion e Howitt ne modellano la “distruzione creatrice”. Gli Stati Uniti sono più pronti dell’Europa ad accettarne i costi e non solo i benefici

Quest’anno il Premio Nobel per l’economia è dedicato al rapporto tra innovazione tecnologica e crescita economica: si divide in parti uguali tra la storia economica (Joel Mokyr) e la teoria della crescita (Philippe Aghion e Peter Howitt). Mokyr, come spiega Giovanni Federico sul Foglio, ha dato un contributo fondamentale “alla spiegazione del ruolo dell’innovazione nella crescita economica”. Aghion e Howitt – individualmente, assieme e in collaborazione con altri, tra cui il Nobel 2024 Daron Acemoglu – a modellizzare l’idea della distruzione creatrice, originariamente proposta da Joseph Schumpeter, nel contesto dell’equilibrio economico generale. Se dunque Mokyr discute di come nasce l’innovazione e l’importanza di un approccio sistemico e non prescrittivo alla medesima, Aghion e Howitt si concentrano su come avviene.




L’idea di fondo è che la crescita nasce da un processo turbolento in cui le nuove imprese introducono nuovi prodotti (o prodotti migliori): in tal modo sottraggono quote di mercato alle imprese “incombenti” fino a espellerle dal mercato. All’interno di tale meccanismo, la “distruzione” delle vecchie imprese e prodotti e la “creazione” delle nuove sono legati indissolubilmente. A favorire questo processo è anche il “monopolio” dei benefici dell’innovazione, reso possibile dai brevetti, che a sua volta stimola nuova innovazione. Per Aghion e Howitt, l’innovazione tecnologica si trova in un equilibrio delicato con la struttura di mercato. Se il mercato è relativamente concentrato, il soggetto dominante ha un incentivo a innovare per preservare la sua posizione. Se però il monopolio diventa inscalfibile, allora tale incentivo viene meno perché il monopolista non ha nulla da temere dai competitor. Ma lo stesso accade in un mercato iperframmentato: se un numero molto grande di imprese compete senza che nessuna possa (aspirare a) aumentare significativamente i propri profitti, allora non c’è motivo per rischiare con la ricerca e sviluppo.

Quindi, gli accumuli eccessivi di potere di mercato sono tanto dannosi quanto le barriere alla crescita dimensionale delle imprese. In questo senso, nel modello di Aghion e Howitt – come in quello di Paul Romer, vincitore del Nobel nel 2018 – l’innovazione è endogena al sistema economico, non avviene al di fuori di esso; tuttavia, il meccanismo che innesca la crescita è “verticale” ed è legato all’ingresso di nuove imprese che espellono quelle vecchie, mentre queste ultime innovano per difendere la propria posizione.



Perché questo accada non bastano le nuove idee: le idee devono poter essere trasformate in prodotti e commercializzate, e il mercato deve premiare chi soddisfa meglio le esigenze dei consumatori e punire chi non lo fa. Il passo successivo è interrogarsi sul perché alcuni paesi (come gli Stati Uniti) sono più innovativi di altri (come l’Unione Europea). La risposta è che questi ultimi sono meno pronti ad accettare le conseguenze (di per sé spiacevoli) della distruzione: gli Stati Uniti non solo hanno un mercato del lavoro più flessibile, ma anche un più intenso dinamismo imprenditoriale. Più imprese nascono e più imprese muoiono: la scomparsa di un’impresa è nella fisiologia del sistema, non è un male da esorcizzare: proprio il contrario del nostro paese (come ha documentato empiricamente Nicola Rossi nei suoi lavori sulla natimortalità delle imprese).



Accettare la distruzione creatrice e i suoi benefici non significa ignorare che, in qualunque cambiamento, vi saranno vincitori e perdenti: compito della politica è rendere socialmente accettabile questo processo perché è da lì che nasce l’innovazione ed è dall’innovazione che sgorga la crescita. Come si può leggere nelle motivazioni del Nobel, né la crescita, né l’innovazione possono essere date per scontate: entrambe poggiano su istituzioni, politiche e valori che agevolano la creazione e che, pertanto, rendono sostenibile la distruzione. Detto in altri termini: la mobilità sociale, cioè il riconoscimento dei meriti degli innovatori e del valore del capitale umano indipendentemente dal background famigliare, forse è l’esito della crescita, ma la possibilità di una società ispirata al merito e non al classismo ne è anzitutto il presupposto.



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