Tel Aviv acclama Witkoff, Kushner e Ivanka: “Thank you President Trump”

Gli emissari del presidente americano annunciano il ritorno, lunedì, dei venti ostaggi vivi. Per due anni gli israeliani si sono riuniti per chiedere il rilascio. Ora sentono che avverrà e scelgono di fidarsi del piano per il medio oriente degli Stati Uniti. Applausi per gli inviati della Casa Bianca, fischi per Netanyahu

Tel Aviv, dalla nostra inviata. Ogni sabato sera, per due anni, gli israeliani si sono riuniti per tenere il punto: il 7 ottobre non finirà fino a quando gli ostaggi non saranno tornati a casa. “Habaita” (vuol dire “A casa”), una canzona di Yardena Arazi, è diventato l’inno dolente di un Israele in attesa.

Sabato 11 ottobre, come ogni sabato, gli israeliani aspettavano la riunione con la gioia e la consapevolezza che forse potrebbe essere l’ultima. Si aspettavano una piazza rigonfia, perché questa volta sul palco di Tel Aviv non sarebbero saliti soltanto i parenti degli ostaggi e i sopravvissuti, con loro ci sarebbero stati gli emissari di Donald Trump, il genero Jared Kushner e sua figlia Ivanka, e l’inviato per il medio oriente Steve Witkoff.

Piazza degli ostaggi attende l’arrivo di Steve Witkoff (Foto Micol Flammini)

Kushner e Witkoff aveva trascorso la mattina a Gaza per controllare il ritiro dei soldati israeliani lungo le linee concordate e annunciare l’arrivo di duecento soldati americani. Il piano che dovrebbe portare alla liberazione degli ostaggi, il cessate il fuoco, una nuova amministrazione nella Striscia e alla sua ricostruzione è appena partito. Fino a oggi soltanto due condizioni si sono realizzate; il ritiro dei soldati israeliani lungo la linea della prima operazione Carri di Gedeone – Tsahal ora controlla il 53 per cento della Striscia – e il cessate il fuoco a Gaza. I palestinesi hanno iniziato a spostarsi, molti hanno fatto ritorno alla città di Gaza, da cui Israele si è ritirato.

Per le strade Hamas ha subito iniziato a imporre la sua presenza, l’agenzia Reuters ha mostrato le immagini di uomini del gruppo. Hamas ha confermato le proprie: schierare forze di sicurezza interna per riaffermare l’autorità nella Striscia. Nessuno si era illuso che non accadesse, la fiducia sta nel fatto che la coalizione composta dagli americani e paesi arabi sarà capace di dare un’alternativa e portare Hamas al disarmo.

Un manifestante vestito da Trump (foto Micol Flammini)

L’ultima piazza di Tel Aviv però non vuole concentrarsi su queste notizie, aspetta il ritorno degli ostaggi, ha deciso di fidarsi di questa America di cui nessuno si fidava fino a poco tempo fa. I cartelli sono di ringraziamento a Trump. L’inizio dell’incontro è previsto, come ogni sabato sera, per le otto. Ma questa volta i media israeliani hanno diffuso la notizia dell’arrivo di Witkoff e Kushner e alle sei la piazza davanti al Museo d’arte di Tel Aviv ha iniziato a riempirsi di persone e di bandiere americane e israeliane.

Bandiere al vento, bandiere intrecciate, bandiere indossate come mantelli. Tra le stelle, la stella di David, le strisce, il rosso, il blu e il bianco, spuntava anche il colore della bandiera che in questi anni ha accompagnato le manifestazioni di solidarietà con le famiglie dei rapiti e di protesta contro il governo: gialle, nessun simbolo, solo il colore che dipinge le città israeliane quando un cittadino viene rapito. Gli israeliani in piazza sono arrivati per ringraziare Witkoff, per dirgli di portare i loro ringraziamenti a Trump, per urlare “Thank you” lunghissimi, ripetuti, disperati, trascinati e liberatori. “Thank you” era anche la scritta dei cartelli rossa distribuiti da un’associazione chiamata Woman demand life.

Piazza degli ostaggi attende l’arrivo di Steve Witkoff (Foto Micol Flammini)

I cartelli sono molti, ma non bastano per tutti, la folla è così compressa che una signora minuta chiede a un padre altissimo, in piazza con tre figli, di mostrare il cartello più in alto che può, in modo che si veda bene la scritta: “Thank you president Trump”. Forse è l’ultima piazza, è un saluto a questa lotta durata due anni, che per la maggior parte del tempo è stata straziata, che al vedere le famiglie degli ostaggi distrutte e lasciate senza risposte non poteva fare altro che scandire: “Non siete soli, siamo con voi”. L’ultima piazza sa di celebrazione, chi è venuto lo ha fatto per sorridere, qualcuno anche per mettere un punto.

Witkoff compare quasi in orario, sono passate da poco le otto. Inizia a leggere il discorso, si perde tra le righe, chiede scusa, riprende, si commuove e dice: “Avete mostrato al mondo che la pace non è debolezza, è la più alta forma di forza”. Definisce la pace promessa in medio oriente “nata non dalla politica ma dal coraggio”.

Jared Kushner, Steve Witkoff e Ivanka Trump a Tel Aviv (Foto Micol Flammini)

L’idillio tra Witkoff e la piazza si incrina soltanto per qualche minuto, quando l’inviato di Trump nomina il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’oramai ex ministro degli Affari strategici Ron Dermer, il mediatore dell’accordo per Israele. Witkoff loda Bibi e i suoi sforzi instancabili, il suo essere stato a disposizione del paese nei suoi momenti più critici. Questa piazza, nella maggioranza, non è d’accordo, fischia, urla “buuuu”, non gli permette di andare avanti. Soltanto un signore si aggira solitario con un cartello con su scritto: “Netanyahu grazie per le vittorie e per gli ostaggi. Un grande leader”.

Un manifestante solitario con un cartello a favore di Netanyahu

Dopo Witkoff prendono la parola Jared Kushner e Ivanka Trump. Non si lasciano travolgere dall’emozione come Witkoff, Kushner è il disegnatore dell’accordo e l’ideatore del nuovo medio oriente di cui Trump parla continuamente.

E’ l’immagine del potere e degli affari, di una pace che proverranno a rendere durevole con un progetto di ricostruzione per Gaza. Kushner nel suo discorso non cita la politica, ringrazia le famiglie dei sopravvissuti e degli ostaggi, ringrazia i cittadini che le hanno sostenute, ringrazia i soldati di Tsahal, parla dei palestinesi e delle loro sofferenze sotto le bombe. I tre scompaiono come sono arrivati, il loro arrivo sul palco è stato una promessa, hanno detto che domani, lunedì, i venti ostaggi rimasti vivi torneranno. Tutti in piazza hanno creduto alla promessa. Hanno creduto anche alla promessa della pace. E’ stata l’ultima sera, l’ultima piazza tinta di giallo.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull’Unione europea, scritto su carta e “a voce”. E’ autrice del podcast “Diventare Zelensky”. In libreria con “La cortina di vetro” (Mondadori)

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