Liturgia delle frange estreme

Chi ha partecipato alle manifestazioni degli anni Settanta lo sa: quella dei “pochi infiltrati”, dei “gruppi isolati” è una retorica truffaldina. Le molotov, l’invenzione dei black-bloc, i servizi d’ordine sopraffatti

So bene come funziona la solfa sulle “frange estreme”, sui “pochi isolati”, sui “provocatori”, sull’“esigua minoranza”, sui “pochi infiltrati”, sul “niente a che fare con la manifestazione”, sui “gruppi isolati”. So bene che è una solfa truffaldina. Per pochi anni, tra i miei quindici e i miei venti prima della liberazione dalla setta, nel cuore dei turbolenti e cruenti anni Settanta (morti e feriti ogni giorno: e qualcuno ne ha pure nostalgia per i “grandi ideali”), con un ruolo decisamente marginale, da pischello impaurito indeciso se partecipare a una sassaiola contro i celerini o darsi a gambe levate lasciando il lavoro ai professionisti dello scontro, anche io sono stato “frangia estrema”, “esigua minoranza”, al limite “provocatore”, un “niente a che fare con la manifestazione”, un “isolato”. Però, nei giorni successivi a qualche camionetta bruciata e qualche poliziotto in infermeria (“se vedi un punto nero spara a vista, o è un carabiniere o è un fascista”, era la gentilezza idealistica dell’epoca), puntualmente tutte le “frange estreme” si rivedevano in piazza dietro un grande striscione con su scritto “NO alla repressione”, essendo le frange sempre vittime e mai responsabili.

Lo sapevamo tutti, come funzionava. Esisteva un rituale, una liturgia, un’estetica, un dress-code della frangia estrema su cui (dopo, a incendio estinto) virtuosamente cadeva come una litania la mannaia dell’esecrazione. Le frange estreme stavano dappertutto, nelle scuole, nelle facoltà universitarie, nei gruppi amicali. Poi, dopo la coda violenta del corteo, i media compiacenti ci rappresentavano come gente poco raccomandabile spuntata chissà da dove. Dal 2001, dagli scontri terribili di Genova, queste frange sconosciute e misteriose, tutte elegantemente lugubri, tutte nere, maglie nere, pantaloni neri, passamontagna neri, tamburi battuti a ritmo per incutere soggezione e timore, agghindate come in un film con Tom Cruise, le frange sono diventate i “black-bloc”. Prima era un tutt’uno, con l’invenzione dei black-bloc si è creato lo stereotipo perfetto dell’“infiltrato” che prende su di sé la colpa e innocentizza il resto della piazza: vengono da lontano, nessuno li conosce, per lo più stranieri, professionalmente lucidi nello scassare bancomat o vetrine di negozi di lusso. Sono diventati il corpo estraneo per eccellenza, l’antitesi anche cromatica della “maggioranza pacifica”, i colpevoli assoluti, sospetti di collusioni con il potere contro cui dicono di battersi violentemente, gli alieni che “nulla hanno a che fare”, eccetera eccetera.

Nei primi anni Settanta, no, ci conoscevamo tutti, frange e maggioranza pacifica. Meglio, eravamo un corpo sfaccettato ma unico. Indistinguibili. Conviventi. Compagni che non sbagliavano e compagni che sbagliavano, tutti insieme. Poi scoppiava il tumulto, la polizia con i manganelli, le bottiglie incendiarie meticolosamente preparate in qualche garage di famiglia, e il corteo, negli attimi prima dello scoppio, che scandiva incantato come in una gigantesca setta alla reverendo Jones: “Champagne molotov”. Frangia sì, ma di un corpo che non ti giudicava un nemico. Un po’ come oggi, appunto.

Giovanissimo, prima che le “frange estreme” prendessero il sopravvento attorno al Settantasette, c’era una barriera che impediva l’infiltrazione nelle grandi manifestazioni della sinistra per così dire organizzata, il Pci, le organizzazioni sindacali, bollati come “revisionisti”, ma con una capacità di interdizione che sembrava assolutamente invincibile, il cui nome veniva pronunciato con timore e riverenza: i servizi d’ordine. Se organizzavano una manifestazione per il Cile straziato dai golpisti di Pinochet, chi avesse osato gridare “in Cile in Cile, il compromesso storico lo fanno col fucile”, come io sventuratamente ho fatto accodandomi al coro idiota in più di un’occasione, insomma la massa dei compagni che sbagliava diventava ipso facto nemico in combutta con facinorosi forse prezzolati che un robusto e disciplinatissimo servizio d’ordine allontanava con mezzi muscolarmente molto convincenti. Cercavamo di infiltrarci ai lati del corteo, inserendoci con bandiere e slogan truculenti. Ma chi avesse assistito alla scena un po’ da lontano avrebbe visto lo striscione incriminato dapprima sbatacchiato, oscillante a forza di spintoni inflitti a chi lo reggeva, per poi sparire, inghiottito nel nulla, con le frange minoritarie che battevano in ritirata, bandiere di gruppo (“gruppuscolo”, irridevano i revisionisti) comprese.

Poi c’erano i grandi cortei operai. Anzi, c’era la classe operaia, l’oggetto smarrito di un Novecento che ha chiuso i battenti insieme a migliaia di grandi e piccole fabbriche. E la classe operaia diretta dai tre sindacati maggiori Cgil, Cisl, Uil (l’Usb che adesso comanda ancora non c’era, come il black-bloc) era a sua volta numericamente potente in ogni suo comparto. C’era la classe operaia dei tessili: cortei enormi, treni e pullman che da tutta Italia confluivano a Piazza San Giovanni a Roma, e le frange estreme che cercavano disperatamente un varco ma messe ai margini dal servizio d’ordine. Poi la classe operaia dei metalmeccanici, la stessa imponenza, prova di forza delle tute blu e noi, vocianti e volantinanti, con lo striscione che prima oscillava e poi spariva. E la classe operaia dei chimici. Sembra un altro mondo, e infatti lo era.

Non era possibile, come è accaduto in questi giorni, che uno striscione assassino sul 7 ottobre della strage di ebrei facesse mostra di sé nelle prime file. Era possibile, anzi era frequente, frequentissimo invece che al termine di una manifestazione non operaia, ma studentesca in senso lato, accadesse quel che è accaduto in questi giorni quando le “frange estreme” hanno dato l’assalto violento alla polizia, devastando Roma, o la stazione di Milano, o i centri di Bologna e di Torino. Semplicemente perché quelle frange, quegli “infiltrati”, quei “provocatori”, quei “sedicenti”, eravamo noi, e tutti lo sapevano, le maggioranze e le minoranze violente. Ma in testa al corteo, mai. C’era Berlinguer, non Elly Schlein.

Si faceva così nei primi anni Settanta, cominciando dal lessico: sempre dal mio punto di vista di pischello, senza nessuna influenza sulle decisioni prese dai leader di un gruppo, o dai leader dei gruppi momentaneamente convergenti (infatti, nel gergo, si chiamavano “inter-gruppi”). Anche sulla storia della violenza tra i gruppi alla sinistra della sinistra “revisionista”, bisognerebbe peraltro approfondire il tema della violenza. Se le davano di brutto. Se le davano quelli del Movimento studentesco di Mario Capanna, stalinisti, con quelli Avanguardia operaia, trotzkisti (il che, tra i trotzkisti apparentemente più buoni, non impedì di far fuori un fascista, Sergio Ramelli, ammazzato a colpi di chiavi inglesi: un libro di Giuseppe Culicchia lo racconta assai bene). Se le davano quelli del Pcd’I linea “nera” con quelli del Pcd’I linea “rossa”, e credo che nessuno avrà memorizzato quale fosse il motivo del contendere da rendere così acrimoniosa e cruenta l’animosità tra gruppi che reciprocamente si accusavano di scissionismo. Si menavano quelli di “Stella Rossa” e di “Servire il popolo”, che amavano Mao ma si odiavano furiosamente per ragioni che non mi sono mai preso la briga, o l’onere, di accertare. Comunque, se veniva indetta una manifestazione definita come “pacifica e di massa”, tutti potevano stare tranquilli, qualche scaramuccia magari, qualche slogan truculento ma tollerato e tuttavia si tornava tutti a casa, sani, integri, pacifici e di massa.

Se invece nell’annuncio di un corteo o di una manifestazione veniva inserita teatralmente la parola “militante”, “corteo militante”, “manifestazione militante”, “antifascismo militante” (a Milano praticamente tutti i sabati), allora era sicuro che stesse per squillare, con il massimo fragore, l’ora della frangia estrema, degli sparuti “gruppi estremisti”, dello “scontro duro”, insomma delle botte con la polizia che l’indomani sarebbero state archiviate come fenomeno marginale, di piccole minoranze che volevano sporcare la purezza delle piazze maggioritarie, il tutto celebrato all’indomani da una manifestazione con in testa sempre lo stesso striscione: “NO alla repressione”.

Con il “militante”, sublimato a parola d’ordine onnicomprensiva, cominciava il rito. Prima di tutto, per le avanguardie delle prime file che dovevano dare il via allo “scontro duro” (“duro” era fondamentale dirlo, perché non sia mai si materializzasse uno scolorito e sconfortante “scontro morbido”) il rito della vestizione in piazza, meticoloso e puntuale come quelle del torero prima di impugnare le banderillas. Prima di tutto il casco in testa: da notare che allora i caschi per motociclette e motorini non erano obbligatori. Preferibilmente bianco, perché la fila di caschi bianchi appariva più spettacolare, ma sul colore si poteva transigere.

Preferibilmente eskimo, ma non per una prescrizione modaiola, come oggi in tempi così frivoli e dominati dal culto dell’apparenza si è indotti a pensare, bensì perché gli eskimo erano dotati di ampi e capienti tasconi laterali dove potevi ficcarci oggetti tra i più svariati, per esempio sassi. Guanti molto spessi per non bruciarsi le mani a contatto con materiale infiammabile. Occhialini antilacrimogeni da indossare quando l’aria è satura di “militanza” e di “scontro duro”. E borsa di pelle un po’ stropicciata a tracolla per stiparci, oltre a spranghe e catene, anche limoni, sempre in funzione antilacrimogena. Foulard scuri (preferibilmente rossi) da mettere in faccia come maschera. Per le primissime file nodosi bastoni con un minuscolo drappetto rosso in cima per farli assomigliare vagamente a una bandiera, chiamati simpaticamente “Stalin” (qualche volta macchine di piccola cilindrata sostavano nei dintorni con il bagagliaio ben munito di parecchi esemplari di “Stalin”). Il tutto completato da un set di bottiglie incendiarie, gergalmente definite nel movimento “bocce”, quelle dello champagne Molotov estaticamente invocato da maggioranze e minoranze, ma materialmente praticato solo da chi aveva dimestichezza con stoppini, accendini e liquidi infiammabili. Quindi, con tutta evidenza non da me e da altri come me, parolai guerriglieri della domenica.

Tutto questo ebbe fine però in una fredda mattinata del febbraio 1977, quando accadde l’inaudito, l’impossibile. La sorpresa. Lo choc. La data spartiacque, nel palcoscenico della militanza politica di quel decennio romano, l’Università La Sapienza. Quel giorno il mitico servizio d’ordine della Cgil che doveva proteggere un comizio del segretario Luciano Lama venne travolto, battuto, messo in fuga dalle “frange” sempre più folte dell’Autonomia operaia, che a Roma, nella sua indolente capacità di rendere grottesca anche la tragedia, veniva chiamata “i Volsci” semplicemente perché la loro sede era a Via dei Volsci, nel cuore del quartiere San Lorenzo, epoca pre-movida. Lama era entrato per dare una raddrizzata a un movimento che, mentre imperversava il terrorismo rosso, sembrava aver ceduto al richiamo sempre più potente della violenza politica. Ne uscì sconfitto. Durante il comizio prima entrarono in scena i cosiddetti “indiani metropolitani”, che volevano essere creativi ma erano soltanto patetici. Poi, dapprima nascosti dalle piume degli indiani, i “Volsci” cominciarono a scandire slogan sempre più truculenti. Poi cominciò la sassaiola. Poi fu il momento della carica. Il servizio d’ordine sindacale umiliato e sopraffatto. Il palco assaltato e andato in mille pezzi. Luciano Lama messo in sicurezza su un’automobile per raggiungere in fretta i cancelli dell’Università. Avevano vinto le “frange”. I Volsci, popolo barbaro, avevano conquistato il centro nevralgico della città. Ogni convivenza divenne impossibile. Fu l’inizio della fine anche per i “gruppuscoli”, oramai schiacciati dalle sirene del riflusso nel privato o, al contrario, dalle seduzioni della lotta armata, almeno come appoggio esterno, contiguità, brodo di coltura. Era cominciata un’altra storia. Ma quella delle “frange estreme” sta riprendendo fiato.

Ecco perché quando sento parlare di piccole minoranze, di frange, di pochi infiltrati, di gente che “nulla ha a che fare” con le masse pacifiche e via salmodiando, mi viene molto da ridere. Ma anche molto da piangere.

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