Ogni traduzione è un tradimento, ma anche l’unico modo che abbiamo per conoscere il mondo e noi stessi. Non è solo passare da una lingua all’altra: è tentare, con le parole, di dare forma all’indicibile. Sccettando che ogni verità, come ogni lingua, resti sempre parziale e imperfetta
Come sanno tutti quelli che per lavoro hanno a che fare con le parole, non c’è nulla di più difficile, nulla di più estraniante della traduzione. Convertire un testo da una lingua all’altra è impossibile rimanendo fedeli al testo iniziale. E’ possibile rimanere fedeli, forse, per testi prettamente tecnici in cui il ritmo in nulla ha a che fare con il testo. Ma non appena la musica entra nelle parole, o meglio, non appena le parole si fanno musica, con le pause e il ritmo stabiliti dalla punteggiatura, con la melodia costituita dalla voce del narratore o del poeta o del filosofo che pensa e canta in una determinata lingua, ecco che in alcun modo si può rimanere fedeli al testo se non tradendolo. Anche questo è noto ma, nonostante ciò, è anche vero. Come scrive il grande traduttore Ottavio Fatica nel suo “Lost in Translation” (Adelphi), il traduttore è uno sherpa. Ma dove ci porta questa guida che arranca sul più difficile e ignoto pendio del mondo, che non è l’Everest ma la parola?
L’atto del tradurre è l’atto più originario della relazione tra uomini, del loro essere animali dotati di logos. Se fossimo soli, infatti, saremmo ovviamente muti. Se fossimo soli non avremmo ragione di emettere suoni per farci capire dagli altri, e forse non avremmo semplicemente bisogno di capire alcunchè. Nella solitudine assoluta, infatti, dovremmo forse immaginarci come esseri persi nel tutto, o padroni di tutto, che è la stessa cosa. Non ci sarebbe nulla da guadagnare o da conquistare, ossia da capire. Tutto sarebbe interamente noto, o interamente ignoto, in ogni caso compiuto.
Il tentativo di tradurre allora non sembra altro che il processo di conoscenza della vita stessa, delle cose di cui è fatta la vita, di ogni suo singolo pezzo che ci sforziamo di nominare, in questa o in quell’altra lingua, e di comunicare a questa o a quell’altra persona per farlo innanzitutto capire a noi stessi. Ma se ogni uomo è anche un’isola, significa che in realtà è un mondo con il suo specifico modo di nominare le cose. E se attorno agli oggetti abbiamo trovato un modo comune di intenderci chiamando questo un tavolo e quella una penna, per quanto riguarda le cose che più ci sono intime, e quindi che più ci appartengono, ossia sentimenti, emozioni e pensieri, beh lì siamo ancora interamente al buio. Lì la confusione, l’indicibile, che comunque sempre ci sforziamo di dire, la fa da padrone. Ma questo sforzo di dire l’indicibile non è altro che uno sforzo di traduzione. Noi siamo costitutivamente dei traduttori.
Dietro questa nostra idea di essere costitutivamente traduttori potrebbe stare una grande illusione che forse fa da sottotesto al nostro continuo, e perlopiù inconscio, sforzo di tradurre: la convinzione che esista un modo “vero” di dire le cose. Un modo in cui la verità di ciascuna cosa possa essere illuminata interamente e vista per ciò che è; e senza zone d’ombra possa essere mostrata in una luce certa e definitiva. Da qui il sogno di una lingua comune e interamente affidabile, che sia in grado di dire le cose per come sono, una volta per tutte, senza fraintendimenti, e che sia da tutti condivisa e condivisibile. Da qui il tentativo di tradurre il logico nel reale, la speranza di dimostrare che ci sia una razionalità (un logos, appunto) al fondo del mondo che cerchiamo di tradurre nella realtà effettiva del mondo, del nostro mondo attraverso le nostre parole.
Oppure potremmo pensare che questo sforzo di tradurre sia troppo faticoso, rumoroso e forse inutile, perché interminabile. In questo caso, allora, sarebbe bello e poetico poter scegliere il silenzio. Questa, però, sembra una via di fuga più che una via d’uscita dallo sforzo di dover tradurre. Una via di fuga come l’aspirazione a vivere nella purezza, come chi non tradisce, come chi smette di cercare. Altrimenti, bisogna accettare l’inganno traditore del linguaggio, il suo sporco sforzo a volersi mostrare ingannandoci e tradendoci, con la sua bellezza, con la sua opacità, con le sue rivelazioni mai definitive.