Donald Trump può davvero vincere il Nobel per la Pace?

Il presidente americano ne è ossessionato e l’accordo tra Israele e Hamas sembra rendere più realistica quest’ambizione. È anche il candidato con il maggior numero di nomination. Ma i problemi non sono pochi: il tempo scaduto, la repressione interna, l’escalation con il Venezuela e le mire su Canada e Groenlandia

Lo daranno, insomma, questo Premio Nobel per la Pace a cui Donald Trump sembra tenere così tanto? L’annuncio della tregua per Gaza alla vigilia dell’assegnazione di Oslo può apparire un colpo decisivo, che segue un appello a conferirgli il Premio proprio da parte dei familiari degli ostaggi di Gaza. Questo accade contemporaneamente a una sua richiesta di arresto di sindaco di Chicago e governatore dell’Illinois, con l’accusa di non avere protetto gli agenti dell’Immigration and Customs Enforcement (Ice) durante le loro scorribande contro clandestini, o presunti tali. Una mossa che lo avvicina in modo inquietante ai metodi di personaggi come Erdoğan, Maduro, Ortega e Orbán, e che dovrebbe renderlo improponibile per certi riconoscimenti. Ma la questione è, evidentemente, più ampia.

Trump rivendica di avere contribuito a far cessare ben sette guerre e nel suo discorso all’Onu se ne è vantato. Alcune di queste rivendicazioni sono farlocche, ma soprattutto con gli sviluppi di Gaza ci sarebbero ragioni molto più solide rispetto ad altri casi di Nobel per la Pace conferiti in passato. Che comunque sono stati spesso occasione di polemiche e pentimenti. Allo stesso Barack Obama fu dato un Nobel per la Pace che è la presumibile origine del rovello di Trump – e che fu in pratica ad honorem, come primo nero presidente degli Usa.

Contro Trump giocano però vari fattori oggettivi, che vanno al di là dell’autoritarismo interno. Uno è che, ad esempio, per imporre la tregua tra Iran e Israele ha bombardato lui stesso l’Iran. E’ stato dato il Nobel a gente che aveva fatto guerre in precedenza, a partire dalla coppia Begin-Sadat e dal trio Peres-Rabin-Arafat. Ma non in seguito ad atti di guerra. Insomma, fare una guerra e poi trattare una pace è ammesso. Imporre una pace con una guerra sembra di no. Oltre al particolare che in questo momento Trump è impegnato in una escalation militare col Venezuela. Di nuovo, sono stati dati Nobel per la Pace a chi aveva fatto guerre prima e a chi le aveva fatte dopo, ma non a chi le stava facendo al momento della designazione. Anche il gesto simbolico di aggiungere al nome del dipartimento della Difesa quello di dipartimento della Guerra è una ciliegina sulla torta che non aiuta – ma è un fatto minore.

Ma poi c’è la rivendicazione di Canada e Groenlandia. La Groenlandia è danese, e il Nobel per la Pace è assegnato da un comitato di cinque membri designato dal Parlamento di Oslo. Questa competenza risale al tempo in cui il Nobel fu istituito, e in cui Svezia e Norvegia erano in unione personale sotto lo stesso re. Al regno partner fu data la scelta su uno dei cinque premi, e gli rimase anche dopo che nel 1905 decise di mettersi del tutto in proprio, con l’offerta della corona al fratello del re di Danimarca. Ma, appunto, al di là della solidarietà più generale che c’è tra scandinavi, minacciare un regno e pretendere di essere premiato da un altro regno su cui regna la stessa famiglia suona oggettivamente un po’ hard.

Su tutto c’è il fatto che il processo decisionale sul Nobel per la Pace non avviene al fotofinish, ma viene da un’istruttoria che si protrae per mesi interi, e le nomination per l’anno in corso si chiudono al 31 gennaio. A quell’epoca, nessuna delle paci di cui Trump si vanta era neanche partita, visto che si era insediato appena 11 giorni prima. E infatti già il 5 marzo il Comitato Norvegese per il Nobel aveva annunciato che erano stati nominati 338 candidati per il Premio Nobel per la Pace 2025, di cui 244 individui e 94 organizzazioni. Secondo lo statuto della Fondazione Nobel, una candidatura è considerata valida se presentata da una persona o da un gruppo di persone appartenenti alle seguenti categorie: 1. Membri di assemblee nazionali e governi nazionali (membri di gabinetto/ministri) di stati sovrani, nonché attuali capi di stato; 2. Membri della Corte Internazionale di Giustizia e della Corte Permanente di Arbitrato dell’Aia; 3. Membri dell’Institut de Droit International; 4. Membri del consiglio direttivo internazionale della Lega Internazionale delle Donne per la Pace e la Libertà; 5. Docenti universitari, professori emeriti e professori associati di storia, scienze sociali, diritto, filosofia, teologia e religione; rettori e direttori universitari (o loro equivalenti); 6. Direttori di istituti di ricerca sulla pace e di istituti di politica estera; 7. Persone a cui è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace; 8. Membri del consiglio di amministrazione principale o del suo equivalente di organizzazioni a cui è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace; 9. Membri attuali ed ex membri del Comitato norvegese per il Nobel; 10. Ex consiglieri del Comitato norvegese per il Nobel.

La maggior parte delle candidature non sono note, ma una cinquantina si conoscono. Tre sono italiane: non solo Francesca Albanese ma anche l’attivista trans Porpora Marcasciano e il grande animatore dell’Arte Povera Michelangelo Pistoletto. Uno è ormai defunto e dunque fuori dai giochi: Papa Francesco. Nella lista ci sono poi i cantanti russi oppositori Ivan Alekseyev e Elizaveta Gyrdymova; gli attivisti palestinesi Issa Amro, Mazin Qumsiyeh e Hind Rajab; il pacifista israeliano Jeff Halper; l’attivista beluchi del Pakistan Mahrang Baloch; gli oppositori di Hong Kong Chow Hang-tung e Jimmy Lai; l’ex-ministro della Giustizia canadese Irwin Cotler; l’attivista pacifista polacca Jolanta Duda; gli attivisti curdi siriani Îlham Ehmed e Sherwan Sherwani; l’oppositore russo ora in carcere Alexei Gorinov; gli attivisti mongolo cinese Hada, uiguro Ilham Tohti, cinesi Huang Xueqin e Li Ying e il pastore protestante cinese Wang Yi; l’attivista azero Gubad Ibadoghlu; il primo ministro malaysiano Anwar Ibrahim; l’ex-primo ministro pakistano poi finito in carcere Imran Khan; l’imprenditore ambientalista samoano Lelei LeLaulu; la leader oppositrice venezuelana María Corina Machado; la attivista e produttrice cinematografica nigeriano-statunitense Zuriel Oduwole; l’attivista canadese per i diritti dell’infanzia Cheryl Perera; l’attivista kosovara Feride Rushiti; il leader dell’opposizione bielorussa Mikola Statkevich; la Commissione del Congresso Usa che ha indagato sull’attacco allo stesso Congresso del 6 gennaio 2021; Campaign for Uyghurs; i bambini di Gaza: il Collectif des Organisations de la Société Civile pour les Élections senegalese; il Grupo Por Un País Mejor messicano; il forum delle famiglie degli ostaggi israeliani; la Corte Penale Internazionale; il Centro kosovaro per la riabilitazione dei sopravvissuti alla tortura; gli studenti serbi che protestano; le palestinesi Women of the Sun, le israeliane Women Wage Peace e Les Guerrières de la Paix di Parigi; le Emergency Response Rooms per il Sudan. Ma ci sono anche Elon Musk, la Nato, il Sudafrica, la leader dell’estrema destra israeliana Daniella Weiss e Mosab Hassan Yousef: il figlio di un fondatore di Hamas poi passato dalla parte di Israele.

E poi c’è, effettivamente, Donald Trump, che è il candidato con il maggior numero di nomination: cinque. “Per la sua straordinaria leadership, la sua brillantezza strategica e il suo impegno senza pari nel promuovere la pace e garantire il rilascio degli ostaggi in uno degli scenari geopolitici più complessi del nostro tempo”: dalla giurista e “sionista americana” Anat Alon-Beck. “Per i suoi tentativi di de-escalation del conflitto tra India e Pakistan del 2025, cercando una risoluzione attraverso il dialogo e la diplomazia segreta, sottolineando al contempo i principi di moderazione, stabilità regionale e prevenzione dell’escalation armata, nonostante il rifiuto dichiarato dell’India di una mediazione di terze parti e la sua insistenza sull’impegno bilaterale”: dal capo di stato maggiore dell’esercito pakistano Asim Munir e dal Governo del Pakistan (che ci avrebbe ripensato dopo l’attacco all’Iran, ma una volta partita una candidatura non si può più ritirare). “In riconoscimento del suo impegno per la pace e la sicurezza in Medio Oriente e del ruolo di Trump nella mediazione degli Accordi di Abramo e del cessate il fuoco e del rilascio degli ostaggi a Gaza”: dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. “Per il suo ruolo storico nella mediazione di un cessate il fuoco tra Israele e Iran e nell’impedire al più grande stato sponsor del terrorismo al mondo, l’Iran, di ottenere una testata nucleare”: dal membro repubblicano della Camera dei Rappresentanti Buddy Carter. “Per il suo ruolo cruciale nel ripristino della pace e della stabilità al confine tra Thailandia e Cambogia”: dal primo ministro cambogiano Hun Manet e dal Governo della Cambogia.

Alcune di queste nomination suonano un po’ zoppicanti. Altre sono più serie, ma dovrebbero nel caso funzionare per l’anno prossimo. Si vedrà.


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