Del Mitridate Eupatore di Alessandro Scarlatti si può dire “capolavoro ritrovato”

Una degna celebrazione dei trecento anni dalla morte del compositore: l’opera, messa in scena al Massimo di Palermo e diretta da Cecilia Ligorio, è un gioiello, che gode di una recitazione accuratissima e fantasiosa

I trecento anni dalla morte di Alessandro Scarlatti sono stati celebrati poco, ma almeno bene. Come per il Mitridate Eupatore riesumato al Massimo di Palermo in una nuova edizione di Luca Della Libera, Paolo Vittorio Montanari e Giacomo Biagi. Quella di “capolavoro ritrovato” è una definizione così usata da risultare abusata: ma davvero non si saprebbe come definire altrimenti questo gioiello, splendidissimo fin dal libretto di Girolamo Frigimelica Roberti (del resto, con un nome così…). È un’Elettra o un Amleto sul Ponto, dove il primo Mitridate, l’Evergete, è stato assassinato dalla perfida moglie Stratonica con la complicità del cugino Farnace. Ma il figlio, il Mitridate-bis, appunto l’Eupatore, è stato messo in salvo in Egitto dalla sorella Laodice. L’azione comincia quando costui torna a casa spacciandosi per ambasciatore egizio, segue tremenda vendetta. Che Scarlatti sia un grande musicista, non ci sono dubbi. Ascoltando questa successione di arie con daccapo una più bella dell’altra veniva da pensare al quasi coevo Händel: diversissimi, certo, ma con la comune capacità di trasformare ogni aria non solo nell’ostensione di un affetto, ma in una raffinatissima definizione psicologica del personaggio.



In un’opera del genere, dove la trama è intricata e a un certo punto, come avviene in queste baroccherie, tutti si travestono da qualcun altro, è fondamentale, in primo luogo, raccontare. La regista Cecilia Ligorio ha intanto il pregio di rendere intelleggibile l’azione. Poi la sviluppa con una recitazione accuratissima e fantasiosa, fra le scene di Gregorio Zurla, una reggia delabré, e i costumi contemporanei di Vera Pierantoni Giua, uniformi e cappottoni per tutti, salvo i clamorosi tailleur da vamp di Stratonica. Bellissimo spettacolo. E bellissima la direzione di Giulio Prandi, che si appoggia a un eccellente basso continuo di specialisti e per il resto barocchizza l’Orchestra del Massimo. Poi dinamiche ampie, agogiche energizzanti e in generale un’idea molto teatrale e incisiva della partitura, da quel thriller barocco che è. Quanto ai tagli, sono inevitabili, perché io posso anche ascoltare i cinque atti nella loro integralità, ma allora dovrei farlo come i veneziani del 1707, cioè andando e venendo dalla sala durante lo spettacolo, mangiando, bevendo, ciacolando, giocando e così via. Del resto, Mitridate Eupatore al Massimo l’avevano già fatto nel 1960, per l’altro tricentenario, quello della nascita: durava un’ora e mezzo in tutto, le arie da 42 diventavano 18, le parti dei castrati erano trascritte per baritoni e tenori. Qualche progresso, insomma, l’abbiamo fatto.



Compagnia dominata dalle due belve Carmela Remigio, Stratonica (alias Clitennestra o Gertrude) e Arianna Vendittelli, Laodice (ed Elettra, e Amleta). Cantano entrambe meravigliosamente, d’accordo. Ma il loro primo scontro, quando si vomitano addosso ogni possibile accusa e recriminazione, è uno dei momenti di teatro più emozionanti vissuti negli ultimi anni: grandiose. Renato Dolcini fa un Farnace burbanzoso ma alla fine gaglioffo, un Trump pelato; inappuntabili Francesca Ascioti e Martina Licari. Il protagonista, Tim Mead, è un controtenore di rito british: si sente nella soavità delle arie patetiche, ma anche in una certa mancanza di incisività. Principesse, duchesse e altre gattoparde locali dapprima un po’ perplesse ma alla fine entusiaste. Giustamente.

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