Il calcio è un’industria e si deve lavorare, dice l’amministratore delegato. Anche il calcio italiano ha bisogno di essere esportato, come la moda o il vino, e di uscire dai vecchi vizi domestici
Forse stavolta il calcio italiano ha trovato un dirigente con il coraggio di dire una cosa normale. Ha ragione Luigi De Siervo, amministratore delegato della Serie A: “Rabiot si scorda, come molti calciatori, che è pagato per giocare”, ha detto. Apriti cielo: lesa maestà verso la categoria (non volendo usare l’orrendo “casta”) dei milionari del pallone, che viaggiano in business class ma fanno gli offesi come se li avessero mandati a spalare carbone. Eppure la verità è tutta lì: il calcio è un lavoro, professionismo di un settore in cui la produzione del bene (da vendere) è molto costosa. Straordinario, strapagato, ma pur sempre un lavoro. Come ha scritto ieri Maurizio Crippa, ci vuole un minimo di logica e di democrazia: se ti pagano milioni per fare il tuo mestiere, e ti chiedono di andare a giocare a Miami o a Perth, seppure come esperimento una tantum, così ha dichiarato la Uefa, in un’ottica di business valutato positivamente dai club, cioè da chi paga i lauti stipendi, la risposta non può essere “mi rifiuto” (anche i giocatori della Liga spagnola stanno progettando uno sciopero per una partita “in trasferta” non concordata). Lo sport professionistico è diventato un’industria globale, e chi ne è protagonista deve smettere di comportarsi come un artista incompreso. La Serie A non può pretendere di vivere di nostalgie mentre il resto del mondo corre. De Siervo ha aggiunto una cosa sacrosanta: se la Serie A non esporta il suo prodotto, finisce ai margini. Il Tour de France parte da Firenze, il Giro d’Italia dall’estero, ma se il Milan gioca a Perth scoppia la rivolta sindacale. Si invoca “la salute dei giocatori” ma si tace la sostenibilità economica. I tifosi, quelli veri, capiscono. Preferiscono vedere la propria squadra nel mondo piuttosto che vederla fallire in patria. Quello del calcio, e De Siervo ne è consapevole, è un esempio che vale per tutto il paese. Anche il calcio italiano ha bisogno di essere esportato, come la moda o il vino, e di uscire dai vecchi vizi domestici. E se per una volta un dirigente parla da adulto, meglio applaudire che fischiare.