La necessità per la Nazionale di abituarsi ai playoff mondiali

Forse questa volta la Federazione è riuscita a smetterla di considere il nostro calcio come parte dell’èlite mondiale e ha agito di conseguenza. Le ultime tre partite di qualificazione alla Coppa del mondo diranno se la “cura” Gattuso può essere davvero utile

C’è un’immagine che ritorna, ogni volta che si parla della Nazionale italiana di calcio: quella di un paese che si specchia nel calcio e non si riconosce più. Per decenni siamo stati l’élite, quattro stelle sul petto, il mito della difesa di ferro, la retorica di un popolo che “non muore mai”. Oggi lo specchio è incrinato, e il riflesso è confuso. L’Italia ha mancato due Mondiali consecutivi, evento senza precedenti, e potrebbe – facciamo gli scongiuri – non qualificarsi al prossimo. Ecco, la consapevolezza di non appartenere più al club esclusivo del calcio mondiale è forse la più dolorosa delle conquiste degli ultimi anni.

Non andare in Qatar nel 2022 è stato un trauma: campioni d’Europa in carica, ma fuori dal torneo che conta di più. La disfatta con la Macedonia del Nord non è stato un incidente, ma il sintomo di un malessere che covava da tempo. Oggi quel malessere è sistema: una difesa che non regge più, un attacco che non punge, un movimento che fatica a produrre ricambi e idee. Non basta più appellarsi al “catenaccio” o al “carattere”, non è più sufficiente affidarsi all’orgoglio tricolore.

La Federazione, questa volta, sembra avere intuito la gravità della situazione. Ha scelto come ct Gennaro Gattuso, non per il palmarès o per l’innovazione tattica, ma perché è forse l’unico capace di strappare dal torpore un gruppo senza identità. Non un taumaturgo, ma un uomo di pancia, di cuore, che ha promesso di ricreare una famiglia nello spogliatoio azzurro. È un segnale: si ammette, tra le righe, che l’Italia non ha più la forza tecnica per imporsi e che l’unica arma rimasta è l’anima, il sangue negli occhi, il senso di appartenenza.

Ma basta Gattuso? Basta il suo ringhio a mascherare le crepe? La verità è che il ct può spostare qualcosa sul breve, raddrizzare una partita, rianimare uno spogliatoio. Non può però colmare anni di arretratezza strutturale. Non può inventarsi stadi moderni, sistemi di scouting competitivi, vivai capaci di produrre talenti con continuità. Non può invertire la curva discendente di un campionato impoverito, incapace di fare sistema e sempre meno centrale nello scenario europeo.

L’Italia non è nuova a rivoluzioni affidate a uomini esterni al recinto federale. Arrigo Sacchi, chiamato nel 1991, fu il primo grande esempio e con lui gli Azzurri arrivarono a un passo dal titolo iridato negli Stati Uniti. Dopo Sacchi ci sono stati altri ct ‘non federali’ e tra questi si sono distinti: Zoff, con la finale europea del 2000; Lippi, che vinse il titolo iridato tra i marosi di Calciopoli; Prandelli, che con stile sobrio e visione equilibrata arrivò fino alla finale europea del 2012; Conte, che seppe trasformare un gruppo modesto in una squadra feroce, capace di battere la Spagna campione europea in carica; Mancini, che ha ridato dignità alla Nazionale dopo la fallita qualificazione mondiale del 2018 e ci ha regalato l’Europeo di Wembley. Ma nessuno di questi è riuscito a invertire il destino lungo: l’Italia resta ciclicamente vittima della sua incapacità di rinnovarsi.

La consapevolezza di non essere più nell’élite mondiale, paradossalmente, è la nostra unica speranza. Solo accettando che il tempo delle illusioni è finito si può provare a ricostruire. Finché ci si racconterà che “all’Europeo siamo stati capaci di tutto”, o che il genio italico ci tirerà fuori dall’angolo, non cambierà nulla. L’Italia non è più lì dove pensava di stare. E forse è da questa umiliazione che si può ripartire: non per forza verso un quinto titolo, ma almeno verso una normalità calcistica che oggi sembra lontana.

Per ora resta lo specchio rotto. E il riflesso di una grandezza che non c’è più.

Di più su questi argomenti:

Leave a comment

Your email address will not be published.