Si presenta come missione civile e pacifica. Cosa mette in discussione la narrazione umanitaria
La Global Sumud Flotilla si racconta come una missione civile: navi, volontari da quaranta paesi, l’obiettivo di rompere il blocco su Gaza e portare aiuti a una popolazione stremata. Una narrazione potente, costruita per catturare la simpatia internazionale: la società civile che sfida gli eserciti, la pace che attraversa il mare contro la guerra. Ma sotto la superficie affiora un’altra storia. Secondo un rapporto del ministero israeliano della Diaspora diffuso a settembre, la leadership della flottiglia non sarebbe neutrale. Le indagini hanno documentato contatti diretti tra membri dello steering committee e alti funzionari di Hamas e della Fratellanza musulmana. “Non sono attori umanitari imparziali – ha dichiarato il ministro Amichai Chikli – ma un fronte ideologico coordinato che usa il linguaggio dei diritti umani per coprire obiettivi di organizzazioni terroristiche”.
I nomi emersi sono numerosi. Muhammad Nadir al Nuri, fondatore di Cinta Gaza Malaysia, ha finanziato strutture sotto diretto controllo di Hamas e compare in foto accanto al leader Ghazi Hamad. Saif Abukeshk, palestinese residente a Barcellona, arrestato in Egitto nel giugno 2025, aveva collaborato con l’algerino Yahia Sarri, affiliato ai Fratelli musulmani, ritratto insieme a Bassem Naim e Zaher Jabarin, vertici di Hamas. Anche Marouan Ben Guettaia è stato fotografato con Youssef Hamdan, mentre Wael Nawar è apparso in pubblico con un simbolo di Hamas. Tra gli attivisti è stata segnalata anche la presenza di membri di Samidoun, rete vicina al Fronte popolare per la liberazione della Palestina, messa al bando da Israele, Germania, Stati Uniti e Canada. A bordo di una delle navi c’era Jaldia Abubakra, esponente di Samidoun Madrid. Il nome che ricorre più spesso è quello di Zaher Birawi, palestinese residente a Londra, già presidente del Palestinian return centre. Un briefing parlamentare britannico del giugno 2025 lo descrive come presidente del Comitato internazionale per rompere l’assedio di Gaza e organizzatore centrale della Freedom Flotilla Coalition. Secondo il documento, fondi raccolti in Gran Bretagna da enti registrati come charity potrebbero essere stati usati per attività legate a Hamas.
Il quadro che emerge non è quello di una pura missione umanitaria. Accanto a studenti, medici e attivisti mossi da sincero spirito di solidarietà, ci sono figure che hanno partecipato a funerali di leader come Hassan Nasrallah, che sono state fotografate con dirigenti della Jihad islamica palestinese e che mantengono rapporti costanti con il vertice di Hamas. Gli organizzatori respingono le accuse, parlano di campagne di discredito, rivendicano la natura civile della missione. Ma gli elementi raccolti disegnano una zona grigia: la commistione tra aiuto umanitario e militanza ideologica.
Il rischio è duplice. Da un lato, rafforzare Hamas agli occhi della comunità internazionale, dandogli una legittimazione indiretta. Dall’altro, danneggiare la stessa causa palestinese, perché ogni iniziativa civile che porta con sé legami opachi rischia di delegittimare l’intero movimento di solidarietà. La Flotilla vive in questa ambiguità strutturale. Non è solo una nave carica di medicine, né solo propaganda: è entrambe le cose. La domanda che resta non riguarda l’urgenza degli aiuti a Gaza, evidente. La vera questione è se sia possibile costruire una solidarietà credibile senza trasformarla in strumento di un movimento che non ha mai nascosto di vedere nella guerra l’unico orizzonte politico.