Nell’epoca della tecnica assoluta, l’arte deve tornare a creare le divinità. Solo nuovi racconti possono arginare il vuoto lasciato da Dio e senso
Da almeno un paio di decenni, ma oggi in particolare, tanto da parte di “conservatori-reazionari” quanto di “no-global” nelle loro più diverse forme, si parla del processo di omogeneizzazione a cui la globalizzazione, e il processo di razionalizzazione tecnica, sottopongono il mondo. In gran parte è vero che vi è questo processo. Quando ci si avvicina, si finisce per somigliarsi e le best practices, in generale, tendono a prevalere. Ciò comporta, con tutta evidenza, una inevitabile uniformazione, e non ci si può fare nulla. Si potrebbe dire che è un processo tutt’altro che nuovo, che inizia con l’Illuminismo e di cui oggi vediamo l’esito. Le tradizioni, le arti, i riti, etc. muoiono non per mera uniformazione ma perché “si svelano” a se stesse dinanzi all’autocoscienza rischiarata, e, perdendo il loro significato apotropaico-mistico-storico, evaporano. Noi siamo ancora nella fase dello “svelamento”, della demitizzazione di ciò che è stato. Ma, prendendo coscienza di questa fase, concettualmente siamo già oltre e sarebbe il caso di iniziare a pensare a come “mitizzare” il futuro. Perché senza mito rimane molto difficile vivere. Bisogna offrire un futuro in cui poter credere (perché capire – scire per causas – non basta!). Se non lo faremo noi, diciamo “i liberi”, lo farà qualcun altro (o forse lo stanno già facendo).
Questa uniformazione, infatti, si riflette soprattutto nella cultura. Attraverso essa si manifesta. Da essa parte e in essa torna. Pertanto il tentativo di ricreare miti è un compito assoluto di chi “crea” cultura. La fiacchezza di tanta parte della scena letteraria, pittorica, musicale, etc. è dovuta proprio a questa incapacità di avvertire il grandioso richiamo del mito. Le opere risuonano piatte e flebili, sostanzialmente uniformi, incapaci di rimandare a niente altro che non sia il passato nostalgico o la quotidianità dozzinal-sentimentale. Dobbiamo ancora rivolgere il nostro sguardo alla Grecia antica. E’ lì che i nostri miti, che ci hanno sostenuto fino a oggi, si sono formati. E il mito dei miti dell’uomo occidentale è certo Prometeo cui Feltrinelli ha dedicato un volume dall’omonimo titolo curato da Federico Condello. Il titano che rubò il fuoco per donarlo agli uomini ancora troneggia come il “nostro mito”, quello della modernità scatenata, di quella che Severino, criticandola e involontariamente esaltandola, chiamava la “follia dell’occidente”. Ossia la volontà infinita di costruire tecnicamente il dominio sulla natura (materiale, psicologica, spirituale).
Il fuoco di Prometeo allontana le fiere, ossia le paure nascoste nel buio. Getta luce e mostra l’assenza di mostri. Il fuoco permette di separare “crudo” e “cotto”, che non è solo il prosciutto, ma la distinzione tra “natura” e “cultura”. Ma, soprattutto, il fuoco è la tecnica per eccellenza, la tecnica di tutte le tecniche, quella da cui tutte discendono. Ciò che permette di conoscere il mondo e di forgiarne, attraverso i suoi strumenti, uno a nostra immagine e somiglianza. È questa, per Severino, la “follia” dell’occidente, quella di farsi Dio attraverso la tecnica. È questa postura che genera “la morte di Dio”: pensare di non avere altro creatore all’infuori di noi stessi. La liberazione da Dio è la liberazione da qualsiasi superiore autorità che ci impedisce di essere interamente autonomi. Per incatenare questa assoluta potenza tecnica, questa follia, come accaduto a Prometeo incatenato alla rupe, o almeno per arginarla, servirebbe evocare un Dio (che però è ora morto, assente, o quantomeno muto). Altrimenti questa tecnica non può che farsi, inevitabilmente, Dio a se stessa. Il resto delle proposte per un uso “sano” della tecnica sono bromuro e vengono spazzate via come polvere bianca da sepolcri abbandonati. Solo un nuovo mito, un nuovo Dio, una nuova Ragione, potrebbe essere in grado di dominare la tecnica. Se questo è il compito dell’uomo, a questa creazione di miti dovrebbe dedicarsi l’arte.