La lunga strada di Israele: la solitudine della libertà sotto assedio

Una super Sparta senza Atene sarebbe una fortezza eroica condannata alla solitudine. Anche in guerra e sotto sanzioni, il modello dello stato ebraico resta la democrazia occidentale che esce dalle mura per difendersi

Saul Bellow, scrittore premio Nobel per la Letteratura, di Israele scrisse che “è sia uno stato di guarnigione che una società colta, spartana e ateniese e non vedo come possano sopportarlo”. Il 7 ottobre 2023 ha fatto precipitare la contraddizione. Benjamin Netanyahu, figlio di suo padre, il famoso storico dell’Inquisizione Benzion scomparso a cento anni, dopo il 7 ottobre si è presentato alla Knesset con una copia di “The rise and fall of Athens”, una serie di scritti di Plutarco a cura di Ian Scott-Kilvert uscito nel 1960 per la Penguin. Questa settimana il premier israeliano ha articolato una visione che ha sorpreso molti e confortato pochi: “Dovremo adattarci sempre di più a un’economia che ha caratteristiche autarchiche” ha detto Netanyahu. “Diventeremo Atene e super Sparta. Non abbiamo scelta”. Il figlio dello storico Benzion sa bene che Sparta fu la grande vincitrice della guerra del Peloponneso e che la sua forza militare fu fondamentale per sconfiggere l’impero persiano. Il suo messaggio non potrebbe essere più chiaro. Hamas e l’asse del male iraniana deve arrendersi e Israele non si scuserà per essersi difeso. E se ci sarà bisogno, andrà da solo alle Termopoli. Come Giosuè che conquista Canaan, i Giudici che radunano le milizie, Davide che combatte i Filistei, Neemia che erige le mura. Ma Netanyahu sa anche che Sparta senza Atene è condannata. “Sparta è sinonimo di sopravvivenza attraverso la forza e l’autosufficienza”, dice il professor Ephraim Inbar, stratega dell’Institute for National Security Studies. “Netanyahu sta dicendo: non abbiamo bisogno del mondo, siamo una fortezza”. Ma Sparta si vantava proprio di essere una fortezza che non aveva bisogno di mura, il contrario di Israele.



Inoltre, Israele è quarto al mondo per pubblicazioni scientifiche, è sesto al mondo nel World Index of Healthcare Innovation, è quinto al mondo per numero di brevetti pro capite (dopo Giappone, Svezia, Svizzera e Corea del Sud, tutti paesi non in guerra) e Israele ha più musei pro capite al mondo. Se esiste Atene in medio oriente, si trova a Gerusalemme. Invocando Sparta, Netanyahu trasforma l’isolamento in una virtù: nazione sotto assedio, invincibile grazie alla sua resilienza. Ed evoca Sparta per giustificare scelte strategiche audaci: l’accelerazione dell’autosufficienza energetica (gas Leviathan, rinnovabili), la militarizzazione dell’economia e un’industrializzazione che abbandona le partnership europee per le alleanze asiatiche anti cinesi e arabe anti iraniane. Dopo la scoperta delle scorte vuote nei magazzini americani il 7 ottobre a causa della guerra tra Russia e Ucraina, Israele ha iniziato ad ampliare le sue linee di produzione per la fabbricazione di munizioni 24 ore su 24, sette giorni su sette, come quando nel 1948 David Ben Gurion contro l’embargo internazionale (fu la Cecoslovacchia a dare agli ebrei le armi per difendersi) mise su una fabbrica segreta e sotterranea per produrre proiettili a Rehovot, camuffata da kibbutz per tenerla segreta agli inglesi, rifornendo i combattenti ebrei per l’imminente guerra d’indipendenza. Qual è l’origine delle nuove agghiaccianti previsioni di Netanyahu? Le minacce provenienti dalle nazioni europee che, come ha detto Netanyahu, “sono soggette al ricatto degli immigrati musulmani in patria”. Con tutto il rispetto per la minaccia di boicottaggio all’Eurovision, questa è più di una semplice gara canora in cui Israele potrebbe esibirsi o meno. Senza armi (finora l’unico paese europeo che ha sospeso ogni accordo militare con Israele è la Slovenia), Israele scomparirebbe in un giorno.



“Atene è l’Europa, con le sue sanzioni e il suo moralismo”, ironizza un consigliere del Likud. “Scegliamo Sparta: produci, combatti, sopravvivi”. Il voto all’Onu sembra consegnare Israele a questa solitudine spartana. Oltre a Stati Uniti e Israele, solo due paesi si sono opposti a tutte e tre le risoluzioni della scorsa settimana all’Onu: Micronesia e Nauru. Il calo del numero di astensioni è una tendenza preoccupante per Gerusalemme, poiché l’astensione formale dalle votazioni dell’Assemblea Generale è riconosciuta come un sostegno passivo a Israele. Solo tre paesi si sono opposti o astenuti in tutte e tre le votazioni: Guatemala, Camerun e Sud Sudan. Nella maggior parte dei casi, i paesi che si sono astenuti nel 2017 e nel 2023 hanno approvato la risoluzione. Il calo delle astensioni è particolarmente grave tra i paesi orientati a occidente, in particolare nell’Unione Europea. Nel 2017, otto paesi membri e candidati all’adesione all’UE si sono astenuti; nel 2023, undici di loro si sono astenuti e due si sono opposti (Austria e Repubblica Ceca). La scorsa settimana, tuttavia, solo due di questi paesi si sono astenuti (Repubblica Ceca e Moldavia) e uno si è opposto (Ungheria). In altri termini, Israele ha perso il sostegno passivo di quindici paesi occidentali che si erano astenuti sulle precedenti risoluzioni: Australia, Bulgaria, Canada, Croazia, Georgia, Germania, Italia, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Slovacchia, Ucraina e Regno Unito. Autarchia, l’opposto dell’economia di libero mercato che Netanyahu ha portato in Israele da quando divenne ministro delle Finanze negli anni Novanta. Il suo punto non è che Israele voglia chiudersi, ma che le circostanze – minacce di embargo, sanzioni, fornitori ostili, boicottaggio – potrebbero non lasciargli altra scelta che fare più affidamento su se stesso.



Israele oggi importa molti più beni di quanti ne esporti. Israele è autosufficiente per quanto riguarda il gas naturale, ma importa il cento per cento del petrolio greggio, 200-250.000 barili al giorno. Il settore alimentare è simile. Israele importa la metà del fabbisogno, soprattutto generi alimentari di base: l’80-90 per cento del grano e la maggior parte del pesce. Le esportazioni israeliane di prodotti per la difesa hanno raggiunto la cifra record di 14,7-15 miliardi di dollari nel 2024, con un aumento del 13 per cento rispetto al 2023, trainate da missili, razzi e sistemi di difesa aerea, che hanno rappresentato il 48 per cento del volume delle esportazioni. Oltre la metà dei suoi contratti di difesa riguarda paesi europei (54 per cento). Dal 7 ottobre, le aziende tecnologiche israeliane hanno perso 8.500 dipendenti a causa dell’emigrazione, mentre il trenta per cento cita la chiamata alle armi come la sfida principale. Ma la tecnologia israeliana prospera solo grazie alle vendite globali: il 75 per cento dei dodici miliardi di dollari di finanziamenti alle startup nel 2024 proveniva da investitori stranieri; esportazioni per un valore di 73,5 miliardi di dollari necessitano di mercati globali. L’autarchia di Sparta ha prodotto potenza militare, ma anche fragilità fatale. Secondo l’autore di “Existential War”, il giornalista israeliano Ari Shavit, ex Haaretz, Israele farà suoi sempre più elementi spartani. I fondi destinati alla sicurezza raddoppieranno, il servizio militare obbligatorio sarà esteso a quaranta mesi (a luglio, il governo ha già esteso il servizio obbligatorio per gli uomini nella maggior parte delle unità da 32 a 36 mesi), i riservisti presteranno più servizio, l’industria si concentrerà sulla produzione di armi, l’esercito di terra sarà aumentato del 40 per cento e le comunità di frontiera saranno trasformate in “avamposti fortificati”.

“Israele deve essere Atene ma, tragicamente, avrà bisogno di elementi spartani” dice Ari Shavit al Foglio. “Israele è frontiera della democrazia, deve restare una democrazia liberale ma allo stesso tempo è in una costante guerra per la sopravvivenza. Prima di uno stato, avevamo una università sul Monte Scopus a Gerusalemme. Siamo il primo movimento di indipendenza che ha dato la parità alle donne. Per Israele è importante essere una Atene che difende se stessa senza diventare Sparta. Prima del 7 ottobre vivevamo come se fossimo parte dell’Unione europea, come se Tel Aviv fosse Amsterdam e non fra Damasco e Gaza, fra Hamas e la Siria di Assad e dell’Isis, e questo durante il periodo di Netanyahu. Ma non dobbiamo andare verso Sparta: la bellezza di Israele è che la sua società è una free speech society.”. A differenza di Israele, Sparta pensava di non aver bisogno di fortificazioni in pietra calcarea, perché difesa da “mura di uomini”. Ritenevano che dormire al riparo di mura fosse vigliaccheria. L’unica cosa di cui avevano paura era di diventare un popolo di pavidi. Tutti i confini israeliani invece sono protetti da fence, barriere, protezioni fisiche, mura, da Gaza al Libano, dal Mar Rosso alle alture del Golan, dal sud del Negev alla Giordania fino alla barriera in Cisgiordania dopo l’ondata di attentati suicidi del 2000-2005. In un saggio per la rivista Commentaire, Ran Halevi ha scritto che “Israele è l’unico paese occidentale che si sta evolvendo contro la nuova fede in un’umanità senza confini”.



Alla vigilia dell’attacco di Hamas, 172.384 civili in Israele avevano un porto d’armi. Da allora, il governo ha rilasciato 205.309 permessi, senza contare le armi detenute dai membri delle forze di sicurezza. E furono gli ateniesi, secondo Tucidide, i primi greci che smisero di portare le armi nella vita di tutti i giorni. Gli ateniesi però furono anche i più prolifici costruttori di muri. Atene sotto Pericle era la città più sofisticata del mondo. Aristofane fece satira su una popolazione assediata dietro alte mura che non faceva altro che scommettere sulle corse di cavalli. Sparta vedeva invece la guerra come la sua migliore opzione e pose Pericle di fronte a un problema: Atene non avrebbe mai potuto sconfiggerla sul campo di battaglia. Che fare? Atene si sarebbe ritirata dietro le “lunghe mura” della città e si sarebbe rifornita via mare. Sparta avrebbe saccheggiato i vigneti e le fattorie di Atene fuori dalle mura. Ma all’interno, gli ateniesi sarebbero rimasti al sicuro. Pericle presumeva che, una volta che gli spartani si fossero resi conto di non poter penetrare le mura né convincere gli ateniesi a uscire e combattere avrebbero accettato la realtà e chiesto la pace. Così, pensò Pericle, lo status quo sarebbe continuato. Alla fine, la strategia di Pericle fallì. Fallì perché immaginava che gli spartani condividessero la sua visione del mondo, un po’ come Israele aveva fatto con Gaza prima del 7 ottobre. Sparta, come la Gaza di Hamas, esisteva per fare la guerra. Aspettarsi che gli spartani si stancassero della guerra significava aspettarsi che, in senso stretto, smettessero di essere spartani. La strategia di Pericle era poi interamente difensiva. Lasciava a Sparta tutta l’iniziativa. Sparta poteva non vincere mai, ma non avrebbe mai perso. E anno dopo anno, Sparta invase la regione intorno ad Atene e attaccò gli alleati di Atene, mentre gli ateniesi rimanevano dietro le mura.


Oggi la visione ateniese in Israele presuppone erroneamente che le affermazioni di vittoria di Hamas siano deliranti, propagandistiche o entrambe le cose. Come le lunghe mura di Atene creavano l’illusione di neutralizzare l’abilità spartana, così Iron Dome, i fence, i checkpoint, lasciano immaginare un terrorismo neutralizzato. Ma la sicurezza garantita soltanto dalle mura è nella migliore delle ipotesi effimera. Nella peggiore, un’illusione. E il 7 ottobre, Israele ha quasi pagato il prezzo più alto per tale eccessiva fiducia. Facile immaginare che Netanyahu si senta come Pericle, che guidò Atene durante i primi anni della guerra del Peloponneso e attraverso una pestilenza debilitante, che alla fine gli costò la vita. Sebbene in precedenza fosse uno stato cliente di Atene, la città di Samo stava cadendo sotto il controllo persiano. Quando la democrazia sostenuta da Atene a Samo fallì, Pericle diede inizio a un assedio che alla fine riuscì a rovesciare la città. L’eroismo guerresco di Sparta generò vittorie ma anche stagnazione e declino, l’apertura di Atene permise l’innovazione, ma la espose anche alla vulnerabilità. Il genio ebraico è stato quello di combinarle: Atene e Sparta si sono fuse a Gerusalemme, tanto da spingere Saul Bellow a scrivere che “nella loro preoccupazione per la decadenza della civiltà e nel loro orgoglio, gli israeliani hanno qualcosa da insegnare al mondo”. Sparta è caduta perché non è riuscita ad adattarsi, Atene perché si è adattata troppo. Israele continuerà a gettare ponti: ma saranno levatoi.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.

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