Con una lettera a colleghi e colleghe dopo 34 anni l’ad lascia Mediobanca, che ormai non è più la public company che aveva sognato e realizzato
Alberto Nagel lascia la Mediobanca dove ha lavorato per 34 anni perché non è più la sua, quella ereditata da Enrico Cuccia e da Vincenzo Maranghi e trasformata a propria immagine. E’ questo il succo della lettera inviata alle colleghe e ai colleghi. “Nel 2004 il 55% del capitale era racchiuso in un Patto di Sindacato ed il resto sul mercato – scrive – A metà del 2019, con la progressiva riduzione del Patto di Sindacato, peraltro trasformato in un Accordo di Consultazione, il capitale sul mercato è pressoché totalitario e Mediobanca una vera public company. Dal 2020 ad oggi si è assistito ad un ritorno dell’azionariato “stabile” a discapito del mercato”. Il progetto public company non c’è più. Al suo posto sono arrivati azionisti che vogliono comandare siano essi soci privati come Delfin e Caltagirone o banche come il Montepaschi. Nagel getta la spugna citando il “darwinismo bancario”: “Le banche devono adattarsi ad un contesto che cambia rapidamente che se non capito ed affrontato proattivamente, adattando i modelli di business, porta all’estinzione della specie”.
Allora c’è da chiedersi se la Mediobanca ha cominciato troppo tardi la lotta per la sopravvivenza o se è rimasta nel ramo più debole della catena evolutiva. Il bilancio della sua gestione descritto nella lettera è molto positivo se si guarda al conto economico, al patrimonio, agli utili distribuiti agli azionisti. Colpisce però che tra le luci non vengano citate anche le ombre, per esempio il rischio di venire travolto dal crac Ligresti che pesava per oltre un miliardo di euro. Nagel l’ha risolto con l’aiuto dell’Unipol al quale ha ceduto la compagnia che Maranghi aveva passato proprio a Ligresti, cioè la Sai Fondiaria, una operazione non priva di gaffe, come il foglietto scritto a mano per offrire una buonuscita alla famiglia del costruttore siciliano.
L’altro aspetto trascurato riguarda le Assicurazioni Generali l’asset più importante in portafoglio (pari al 13% del capitale, ma con una quota molto più importante se prendiamo l’impatto sugli utili della Mediobanca). Qui è scoppiato il maggior conflitto con Leonardo Del Vecchio (a parte il rifiuto di cedergli l’Istituto oncologico) e con Francesco Gaetano Caltagirone. La critica è che Nagel ha sacrificato un’eventuale crescita esterna della compagnia sull’altare della sua autonomia da soci dominanti e ancor più dai governi bisognosi di collocare titoli di stato e di esercitare un controllo sui risparmi degli italiani. Il top manager ha chiamato la sua strategia standing alone che potrebbe essere tradotto in latino con status quo. Ed è rimasto solo, troppo solo. Anche sul piano internazionale: dal momento in cui è venuto a mancare il legame con la potente Lazard, franco-americana, perla della grande finanza ebraica e internazionale, la stessa Mediobanca è scesa in trincea.
Un’occasione per spezzare il cordone ombelicale e liberarsi da un abbraccio sempre più dominante con le Generali, si era presentata già nel 1999 quando l’Unicredit lanciò un’opa sulla Comit e contemporaneamente il Sanpaolo-Imi fece altrettanto sulla Banca di Roma. Si misero di traverso la Banca d’Italia e il governo guidato da Massimo D’Alema. L’asse della finanza cattolica, a cominciare da Giovanni Bazoli e Giuseppe Guzzetti, aveva un altro progetto: la Comit con la Banca Intesa che nel 2007 si sarebbe poi unita al SanPaolo di Torino, mentre Unicredit assorbiva Capitalia, la ex Banca di Roma. Il rammarico è ancor più comprensibile se si dà un’occhiata a quel che succede dopo la scomparsa di Cuccia con Maranghi che chiede aiuto a Vincent Bolloré il quale si spende per sostenere il proprio mentore, anzi parrain, parino, Antoine Bernheim alla presidenza delle Generali. Maranghi si dimette nel 2003 dopo una dura battaglia con Profumo, con Cesare Geronzi alla guida della Banca di Roma e con Antonio Fazio governatore della Banca d’Italia. E’ a quel punto che prende le redini Nagel prima insieme a Renato Pagliaro, poi sempre più solo al comando e comincia una serie di trasformazioni importanti, alcune di successo altre no come la perdita del controllo sulla Rizzoli Corriere della Sera ad opera di Urbano Cairo.
E’ apparsa fuori tempo massimo anche la mossa di scambiare il pacchetto della compagnia triestina per ottenere Banca Generali e avviare un nuovo percorso nel proficuo mondo della gestione patrimoniale. Alla fine è sembrato un espediente per ostacolare l’operazione Mps-Delfin-Caltagirone. La lettera si conclude con una citazione da Orazio (in latino, ma la traduciamo): “La Grecia conquistata ha conquistato il fiero vincitore”. Nagel se ne va, Mediobanca resta e la partita non è chiusa. Lunedì si vedrà se Mps otterrà più del 90% e dovrà lanciare un’opa sulla quota residua diluendo gli azionisti vincitori. Ciò solleva nuove incognite sulla governance, mentre ancora non si conosce chi prenderà il posto di Nagel. In tal caso il vincitore si troverà a mitigare la propria fierezza.