La filiale saheliana di al Qaeda sta stringendo sempre più la capitale in un principio di assedio, per portare il regime al collasso. L’aiuto occidentale inesistente e gli attacchi a camion e autocisterne
“Vision Mali 2063”: si chiama così l’apparentemente ambizioso piano di sviluppo che il governo di Bamako ha appena presentato ai suoi partner tecnici e finanziari, con l’equivalente di 93.35 miliardi di euro da investire in undici progetti strutturali su infrastrutture, energia, agricoltura, istruzione e governance, spiegando che secondo il Fondo monetario internazionale il paese dovrebbe passare da una crescita del pil del 4,7 per cento nel 2024 al 5 per cento nel 2025. Con un’avvertenza, però: “Se le grandi attività minerarie riprenderanno”. A parte l’oro, per cui l’Impero del Mali era famoso nel Medioevo e di cui è tuttora il terzo esportatore africano, ci sono anche fosfati, uranio, ferro, bauxite, manganese, sale e diamanti. Ma diventa difficile appunto “riprendere”, se la guerra continua a sconvolgere il paese. E mentre veniva annunciata dal governo la “Visione”, sui media internazionali arrivava l’informazione che la filiale saheliana di al Qaeda sta stringendo sempre più la capitale in un principio di assedio, per portare il regime al collasso.
L’aiuto occidentale contro i jihadisti è insufficiente – soprattutto della Francia, ex potenza colonizzatrice – nel 2020 i militari andarono al potere, e nel 2022 il dittatore colonnello Assimi Goïta decise di chiamare i russi della Wagner, accusando l’occidente di fomentare golpe contro di lui. Nel 2023 il francese fu declassato da lingua ufficiale a “lingua di lavoro”. Sempre nel 2023 il Mali fu uno dei sette paesi che votò all’Onu contro la richiesta di ritirare le truppe russe dall’Ucraina: assieme alla stessa Russia e a Bielorussia, Corea del Nord, Eritrea, Nicaragua e l’allora Siria di Assad. E ancora nel 2023 Mali e Niger denunciarono i loro accordi di doppia imposizione con la Francia. Il 5 agosto 2024, poi, il governo di Bamako ruppe le relazioni con l’Ucraina, accusandola di appoggiare i ribelli tuareg. E quest’anno i tre governi golpisti e filorussi di Mali. Burkina Faso e Niger hanno lasciato la Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale.
Ma la retorica anti occidentale e filo Putin non è servita a fermare le rivolte jihadista e tuareg, e adesso la Wagner ha anche annunciato il suo ritiro. Dopo essere stata accusata di massacri e atrocità, a quanto pare non è stata soddisfatta nelle sue richieste economiche, per la riluttanza del regime a rilasciare concessioni minerarie. Domenica mattina l’esercito maliano ha denunciato un grave attacco di jihadisti a un convoglio che trasportava carburante sotto scorta militare: sulla strada che va da Kayes, verso il confine occidentale con il Senegal, alla capitale, e che è un’arteria vitale per l’economia nazionale. L’attacco è stato rivendicato nel pomeriggio dal Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Jnim), guidato da Iyad Ag Ghali e affiliato ad al Qaeda, che dal 3 settembre ha appunto annunciato l’imposizione di un blocco alla stessa Kayes e a Nioro-du-Sahel, che si trova invece sul confine con la Mauritania, per impedire l’ingresso di carburante dai paesi vicini. Per questo l’esercito ha iniziato a scortare questi convogli, e per qualche giorno è andata bene. Ma nel contempo il portavoce dell’esercito, il colonnello Souleymane Dembélé, aveva avvertito che i gruppi armati stavano utilizzando nuove tattiche, tra cui droni, ordigni esplosivi improvvisati e attacchi contro i civili.
Per questo motivo il regime accusa Francia e Ucraina di aiutare i ribelli, e i ministri della Giustizia di Burkina Faso, Mali e Niger, asse golpista e filorusso ora raccolto nella Alleanza degli stati del Sahel (Aes), hanno annunciato di voler ricorrere alla Corte internazionale di giustizia contro Parigi e Kyiv. In particolare, le giunte militari africane sostengono che l’Ucraina aiuterebbe, con forniture militari, formazione e supporto logistico, i ribelli Tuareg separatisti che operano principalmente nel nord del Mali, lungo il confine algerino, ma anche alcuni gruppi islamisti legati ad al Qaeda, come lo stesso Jnim.
Camion e autocisterne sono stati comunque incendiati. Alcuni camionisti senegalesi sono stati rapiti, prima di essere finalmente rilasciati dopo 48 ore. Anche la strada tra Bamako e Ségou, che si trova invece a est della capitale, è stata bloccata. E gli autobus della compagnia di trasporti Diarra, accusata dai jihadisti di collaborare con la giunta di Assimi Goïta, sono stati attaccati, spingendo l’azienda ad annunciare la sospensione delle sue attività. Da allora, e nonostante l’impiego di scorte militari, decine di altre autocisterne sono state incendiate sulla strada tra Kayes e Bamako.