Annettere Gaza e il no a priori allo stato palestinese sono due errori

Tra il massimalismo di Netanyahu e l’irrealismo dei sostenitori del ritorno integrale ai confini pre 1967 esiste uno spazio per soluzioni creative e graduali. Il tempo ormai stringe. Ogni giorno che passa accresce il pericolo di vita per gli ostaggi

Quando Netanyahu dichiara che “non ci sarà mai uno stato palestinese”, non sta semplicemente esprimendo una posizione ideologica. Sta tracciando una strada che, paradossalmente, rischia di danneggiare profondamente gli interessi strategici a lungo termine di Israele. Non si tratta di fare il tifo per una parte o l’altra: dopo decenni di guerre, rifiuti di accordi di pace, terrorismo, razzi e rapimenti, le preoccupazioni di sicurezza israeliane sono comprensibili quanto i fallimenti di tutte le leadership palestinesi sono evidenti. Ma proprio per questo, un’analisi fredda e pragmatica diventa necessaria. Il rifiuto categorico di una soluzione a due stati e le modalità dell’attuale guerra non eliminano i problemi che dovrebbero risolvere: li trasformano in bombe a orologeria demografiche, ambientali e geopolitiche che rischiano di esplodere nelle mani dello stesso Israele. D’altra parte, la geografia ce lo insegna: in questo fazzoletto di terra, più piccolo del Piemonte, la natura non riconosce i checkpoint militari né le barriere di sicurezza.

L’acquifero costiero che attraversa Gaza e Israele forniva quasi l’80 per cento dell’acqua della Striscia, ma le sue falde si estendono ben oltre i confini politici. Quando 84.000 metri cubi di acque reflue non trattate finiscono quotidianamente nel Mediterraneo da Gaza, non inquinano solo le coste palestinesi: compromettono l’intero ecosistema marino orientale, dalle spiagge di Ashkelon fino ad Haifa. La guerra in corso ha aggravato la situazione. I bombardamenti hanno distrutto impianti di depurazione, serbatoi d’acqua e infrastrutture sanitarie. Il risultato è che il 97 per cento dell’acqua di Gaza è oggi imbevibile: salata, salmastra e contaminata. Ma in un territorio dove le falde acquifere si estendono sottoterra senza rispettare i confini, questa contaminazione non resta confinata. L’inquinamento delle acque sotterranee impiega anni per manifestarsi completamente, ma quando emerge è irreversibile e i danni saranno evidenti anche in Israele. L’alternativa all’accordo politico è la gestione perpetua di un disastro ambientale condiviso.

Poi c’è il paradosso demografico: i numeri raccontano una storia che la retorica non può modificare. Oggi Israele conta circa 7 milioni di ebrei e 2 milioni di arabi israeliani. Nei territori palestinesi vivono oltre 5 milioni di persone, tutte arabe: 2,2 milioni a Gaza e circa 3 milioni in Cisgiordania. Se Israele dovesse annettere formalmente questi territori si troverebbe a governare una popolazione totale di 14 milioni di persone, di cui 7 milioni non ebree. E’ vero che i dati del 2024 mostrano un tasso di fertilità ebraico (3,03 figli per donna) superiore a quello arabo israeliano (2,75), ma non superiore a quello delle donne palestinesi dei Territori. Netanyahu e i suoi ministri si trovano così di fronte a un dilemma insolubile. Se mantengono lo status quo, senza annessione, interagiscono de facto con milioni di persone senza diritti politici (sia Hamas sia l’Autorità Palestinese impediscono le elezioni dal 2006) e con una leadership collusa col terrorismo. Se procedono all’annessione, mantenendo la peculiarità democratica anche nel nuovo assetto, devono accettare che nel giro di una generazione gli ebrei diventino minoranza elettorale nel proprio stato, con l’incubo di tornare alla dhimmitudine. La terza opzione – annessione senza diritti politici per i palestinesi – trasformerebbe formalmente Israele, se non in uno stato di apartheid, certamente in uno stato di cui Ben Gurion si sarebbe vergognato, con tutte le conseguenze internazionali del caso. Il paradosso è che la vittoria totale – il controllo completo del territorio – si trasformerebbe nella fine dell’Israele ebraico e democratico. Come disse una volta Ehud Barak, Israele deve scegliere tra essere ebraico, democratico o controllare tutta la terra: può sceglierne due su tre, mai tutte e tre insieme.

In più c’è un altro errore strategico che rischia di aggravare la situazione: l’invasione di Gaza City. Al di là delle motivazioni militari, l’operazione terrestre presenta criticità tecniche e politiche che non possono essere ignorate. Secondo il Forum delle famiglie degli ostaggi, l’invasione rischia di compromettere la vita degli ostaggi ancora detenuti da Hamas, rendendo impossibile localizzarli o recuperarne i corpi per una degna sepoltura. L’Idf stesso ha ammesso che l’operazione “Carri di Gedeon II” non porterà alla resa di Hamas, ma potrebbe innescare una guerra senza fine nella Striscia. In altre parole, si tratterebbe di una “non soluzione” o per lo meno di una soluzione non duratura. Difficilmente Hamas verrà eliminato con mezzi militari: ogni vittima civile – inevitabile in un contesto urbano così complesso – alimenterà la narrativa del martirio, rafforzando la legittimità del gruppo agli occhi di una parte della popolazione palestinese e dell’opinione pubblica internazionale. In assenza di un piano politico per il “dopo”, l’operazione rischia di replicare gli errori del passato: vittoria tattica, sconfitta strategica.

Sono comprensibili le preoccupazioni di quanti pensano che riconoscere “ora” lo stato di Palestina sia un regalo ad Hamas e uno sprone a ripetere il 7 ottobre. Sono io la prima ad affermarlo: non è certamente questa la strada corretta da seguire. Non si può riconoscere uno stato senza trattative, senza confini, semplicemente sperando che la sola parola “Palestina”, magari pronunciata in sede Onu, sia capace di concretizzare la nascita di un paese democratico accanto a Israele. Non funziona così. Un eventuale stato palestinese, in queste condizioni, nascerebbe debole e destinato al fallimento. Ma se è oltremodo sbagliato promuovere la nascita di uno stato palestinese con gli occhi bendati, è altrettanto sbagliato negarlo a priori. Temo che l’idea di Netanyahu di rifiutare ogni soluzione statuale, senza sedersi a un tavolo di trattative e perseguendo la distruzione di Gaza e l’annessione della Cisgiordania, possa contribuire a far sì che il controllo dei palestinesi, sul terreno, finisca nelle mani dei più radicali e violenti. A meno di pensare che sia davvero realizzabile l’idea fantasiosa di deportare tutti i palestinesi in Indonesia. A quale prezzo? La strategia del “no” di Netanyahu non avviene nel vuoto geopolitico.

So che queste mie riflessioni potranno essere fraintese, tuttavia ritengo che riconoscere i limiti della strategia attuale non significhi abbracciare l’utopia o sedersi sulla sponda opposta del fiume. Nessuno oggi può credere seriamente che sia possibile tornare alle linee del 1967 o che Hamas sia un partner per la pace. Ma tra il massimalismo di Netanyahu e l’irrealismo dei sostenitori del ritorno integrale ai confini pre 1967 esiste uno spazio per soluzioni creative e graduali. Purtroppo ormai il tempo stringe. Ogni giorno che passa accresce il pericolo di vita per gli ostaggi. Ogni mese che passa rafforza i radicali e ne crea di nuovi. Ora Netanyahu si ritrova a fare i conti con la sua strategia e a dover ammettere che Israele è isolato, arrivando addirittura ad invocare l’autarchia.

Come ben sappiamo, la grandezza di un leader politico non si misura nella capacità di evitare scelte difficili, ma nell’abilità di prendere decisioni impopolari quando l’interesse nazionale lo richiede. Begin firmò Camp David sapendo di dover restituire il Sinai e smantellare gli insediamenti di Yamit. Rabin strinse la mano ad Arafat nonostante decenni di terrorismo. Sharon si ritirò unilateralmente da Gaza contro l’opposizione della sua stessa base elettorale. Nessuna di queste decisioni fu perfetta o priva di conseguenze negative. Ma tutte riconobbero una verità fondamentale: in politica, come in medicina, spesso la cura perfetta non esiste e bisogna scegliere tra mali diversi, optando per quello minore.

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