Redford ha incarnato il progressismo hollywoodiano più di chiunque altro

L’attore non è mai entrato direttamente in politica, ma è diventato una voce per i diritti di chi faticava ad averne una: gli attivisti ambientalisti, i nativi americani, le minoranze, incluse quella Lgbtq+. Molti suoi colleghi, all’epoca, non si esponevano per timore di perdere fette di pubblico

Se c’è un attore che più di ogni altro ha incarnato il progressismo hollywoodiano, quello è Robert Redford. Nonostante il fisico e le ascendenze fossero quelle di un americano anglosassone la cui famiglia, che vanta anche un ramo irlandese, è arrivata Oltreoceano prima della Guerra Civile per stabilirsi in Connecticut, poi in Texas e infine in California, dov’è nato nel 1936. Già da ragazzo impara ad amare la Natura e questo forse è il primo germe del suo progressismo. Anche sullo schermo, dopo gli inizi a Broadway e in televisione, diventa un icona di sinistra almeno sin dai tempi del western revisionista Corvo Rosso non avrai il mio scalpo del 1972 (in originale “Jeremiah Johnson”) dove analizza i rapporti tra i bianchi e i nativi sulla frontiera.

Sarebbe troppo lungo ora cercare di analizzare i suoi film storici come I Tre Giorni del Condor del 1975, dedicato al lato oscuro della Cia e tutti quelli venuti dopo, compreso Gente Comune del 1980, che gli è valso il suo unico Oscar alla Regia. Il Redford più importante qui è quello politico, che ha cominciato a incarnare su di sé gli ideali di sinistra già negli anni ’80 con l’istituzione del Sundance Institute in Utah nel 1980, un’istituzione culturale formata con i guadagni dei suoi primi film, per formare una nuova generazione di registi e sceneggiatori che uscissero dalle convenzioni hollywoodiane. Tre anni prima aveva creato un festival, sempre chiamato Sundance, dal nome di uno dei suoi personaggi del film Butch Cassidy del 1969. Ed è lì che Redford diventa quello che si conosce in un’epoca in cui a Hollywood il potere stava passando dai magnati degli studios agli attori anche grazie alle lotte sindacali condotte a inizio anni ’60 da un collega che sarebbe poi diventato presidente con idee opposte a quelle di Redford, Ronald Reagan. Redford, a differenza del collega, non entra mai direttamente in politica, ma diventa una voce per i diritti di chi, in quel decennio ma anche in quello successivo, fatica ad avere una voce: gli attivisti ambientalisti, i nativi americani che lottavano per affermare i propri pieni diritti di cittadini, le minoranze, incluse quella Lgbtq+, mentre molti suoi colleghi, all’epoca, non si esponevano per timore di perdere fette di pubblico.

Erano ancora lontane le prese di posizione conformista degli ultimi anni sull’inclusività e sulle cause del momento da sostenere con una dichiarazione fatta a favore di camera. Redford lo faceva rischiando una reazione a cui risponde diventando sempre più, anche sullo schermo, il ritratto della sua militanza, come in The Company you keep del 2012, dove interpreta addirittura un reduce del gruppo terroristico di sinistra dei Weather Underground. Dopo il ritiro, come detto, rimane come personaggio mai visto nella miniserie Watchmen, dove in una realtà alternativa è diventato presidente nelle fila dei democratici. Un sogno che si è avverato soltanto lì, mentre nella nostra realtà, specie a partire dalla prima elezione di Donald Trump nel 2016, il progressismo hollywoodiano è diventato simbolo di elitismo e di lontananza dalle cause che stanno a cuore alle classi popolari. Redford, non bisogna dimenticarlo, non è mai stato nulla di tutto questo, anche perché ha dedicato a costruire un cinema diverso la seconda parte della sua vita, allevando una nuova generazione di artisti lontani da quel paradigma hollywoodiano che ha saputo assorbire e fare proprio il progressismo di matrice woke. Oggi Redford viene ricordato da un altro presidente che ha la stessa sulla Walk of Fame di Hollywood, quel Donald Trump che aveva definito “aspirante dittatore” già nel 2019. All’epoca sembrava un’esagerazione, oggi non più di tanto.

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