Minimizzare i droni in Polonia e Romania significa dimenticare la grammatica della provocazione in medio oriente. Come Hezbollah e l’Iran
C’è una frase che torna ogni volta che un drone o un missile russo finisce nello spazio aereo di un paese Nato: “E’ stato un incidente”. La usano i portavoce di Mosca, la ripetono i governi europei più ansiosi di non alzare la voce, la sussurrano perfino certi analisti che temono l’escalation più della guerra stessa. Eppure, se c’è un luogo del mondo che ci ha insegnato a non credere alla retorica dell’“errore tecnico”, quel luogo è il medio oriente. Per anni Hezbollah, con la benedizione e i missili dell’Iran, ha sconfinato in Israele con modalità identiche: qualche razzo, qualche incursione di confine, qualche attacco dimostrativo. Non abbastanza da scatenare una guerra totale, ma sufficiente a testare la reazione israeliana, a misurare i nervi degli avversari, a valutare se e fino a che punto la deterrenza reggesse. Ogni volta che un colpo non riceveva risposta, l’asticella si alzava. Ogni volta che il confine diventava poroso, il messaggio era chiaro: il nemico non ha la forza o la volontà di reagire.
Ecco, la Russia sta facendo la stessa cosa in Europa. Quando un drone iraniano usato da Mosca precipita in Romania o in Polonia, non siamo davanti a un guasto di navigazione. Siamo davanti a un messaggio politico. Mosca vuole sapere se la Nato reagisce compatta, se Varsavia alza la voce, se Bruxelles finge di non vedere. E’ un laboratorio di provocazioni calibrate, esattamente come quelli a cui ci hanno abituato Teheran e i suoi proxy libanesi. La differenza è che qui il confine non è quello tra due paesi in guerra permanente: è il confine dell’Alleanza atlantica, protetto da un articolo 5 che dovrebbe valere come spauracchio assoluto. Ma se l’articolo 5 diventa un santino evocato solo per le cerimonie, Mosca lo percepisce subito.
Non serve essere falchi per capire la logica: Putin si comporta come Hezbollah perché ha imparato che l’occidente ragiona con la paura di reagire. E punta a erodere giorno dopo giorno la soglia di ciò che viene tollerato. La retorica dell’incidente serve solo a mascherare la realtà: la Russia sta testando la Nato esattamente come l’Iran testava Israele. E la Nato rischia di ripetere gli stessi errori compiuti da chi pensava di guadagnare tempo con la prudenza. Non si guadagna tempo: si cede terreno. C’è un punto polemico che va chiarito: chi minimizza oggi è lo stesso che ieri accusava Israele di “reagire in modo sproporzionato” ai razzi di Hezbollah. Come se la sproporzione non fosse nella provocazione continua, ma nella difesa. Oggi quegli stessi riflessi condizionati emergono in Europa: meglio dire che “non è successo nulla” piuttosto che ammettere che il nemico sta sondando le nostre difese. La verità è che non esistono “sconfinamenti accidentali” in un mondo governato da algoritmi militari, radar, satelliti e sistemi di puntamento iper sofisticati. Ogni traiettoria è scelta, ogni obiettivo è calcolato, ogni violazione è deliberata.
Chi ha capito la grammatica di Hezbollah e dell’Iran non può oggi cadere nella favola russa. Ogni drone abbattuto in Polonia o in Romania è un pezzo di futuro che si scrive. La domanda è semplice: vogliamo che il futuro assomigli a quello di Israele, costretto a vivere nell’assedio permanente, o vogliamo dimostrare che l’Europa non è un campo di addestramento per le provocazioni di Putin?