Giudici o ayatollah? Le sentenze moraleggianti del tribunale di Torino

La sentenza sulla donna aggredita conferma che tanti magistrati hanno un problema nello scrivere provvedimenti giudiziari senza tracimare in considerazioni personali o moraleggianti del tutto superflue. Il problema sembra porsi soprattutto a Torino. Il precedente

Serviva la sentenza di Torino sui presunti maltrattamenti commessi da un uomo nei confronti dell’ex moglie, legittima sotto il profilo giuridico ma disastrosa sul piano linguistico, per capire che tanti giudici italiani hanno un problema nello scrivere provvedimenti giudiziari senza tracimare in considerazioni personali o moraleggianti del tutto superflue. A ben vedere, il problema sembra porsi con evidenza proprio tra i magistrati torinesi. Lo scorso luglio su queste pagine definimmo provocatoriamente come “iraniana” la sentenza emessa dal tribunale di Torino sul caso “Bigliettopoli”. Il processo si è concluso con l’assoluzione di tutti i principali imputati, eppure nelle motivazioni della sentenza i giudici si dedicano a una sorta di lezione di storia (con una lunga disamina sull’evoluzione della corruzione a partire dagli antichi romani) e si lanciano in giudizi morali, a dir poco fuori luogo, nei confronti delle persone coinvolte. Ebbene, sorpresa: il collegio giudicante era esattamente lo stesso che ha emesso la discussa sentenza sui presunti maltrattamenti ai danni di una donna. Presidente Paolo Gallo, giudici a latere Elena Rocci e Giulia Maccari.

Il collegio giudicante presieduto da Gallo lo scorso giugno ha assolto un uomo dall’accusa di maltrattamenti nei confronti dell’ex moglie, condannandolo soltanto per lesione personali a un anno e sei mesi di reclusione in virtù dello sconto di pena dovuto alla scelta del rito abbreviato. Diversi organi di informazione hanno riportato le motivazioni della sentenza, depositate nei giorni scorsi, in maniera distorta. Addirittura l’agenzia Ansa ha titolato: “Massacrata di botte dall’ex, assolto perché ‘andava compreso’”. In realtà, l’uomo non è stato assolto dall’accusa di maltrattamenti perché “andava compreso”. I giudici hanno escluso la sussistenza del reato di maltrattamenti perché non hanno riscontrato gli elementi necessari per configurare il reato (cioè l’abitualità di comportamenti violenti, vessatori e umilianti in ambito familiare). L’uomo è invece stato condannato per lesioni per aver sferrato un pugno al volto contro la sua ex moglie.

Durante il percorso argomentativo, però, in alcune occasioni i giudici si lanciano in considerazioni del tutto superflue. Lo fanno quando, ad esempio, scrivono che “l’imputato rimproverò alla moglie (e come dargli torto?) di non avere avuto la sensibilità di parlargli a tu per tu”. Quando sostengono che l’episodio del pugno va esaminato alla luce del “sentimento, molto umano e comprensibile per chiunque” che derivava dal “sapere che un estraneo trascorreva del tempo nella casa che per quasi vent’anni era stata la sua dimora familiare, e si sostituiva a lui nel rapporto con i figli”. E ancora quando scrivono che l’imputato si è recato in casa il giorno in cui ha aggredito l’ex moglie dopo che il figlio dodicenne gli aveva confidato di aver assistito, dentro casa, ad atti sessuali della madre con il nuovo compagno, “cosa che in termini oggettivi – al di là e a prescindere dal soggettivo fastidio che poteva aver dato all’imputato – era educativamente inaccettabile”.

Si è di fronte, con evidenza, a giudizi moraleggianti assolutamente inopportuni per un provvedimento giudiziario, ancor di più se questo riguarda una vicenda così delicata come l’aggressione nei confronti di una donna.

Ciò che stupisce, come dicevamo, è che il collegio giudicante del tribunale di Torino è lo stesso che lo scorso marzo, pur assolvendo tutti i principali imputati del processo “Bigliettopoli” (incentrato su numerosi presunti episodi di corruzione), si è lanciato in una lezione storica sul divieto di effettuare donazioni a pubblici dipendenti, partendo da quanto avveniva nel “tardo impero romano” (con la “regola della sportula”). A questo si aggiungono poi commenti moralistici. Fare regali ai pubblici ufficiali “è un’abitudine che dovrebbe semplicemente cessare”, scrivono i giudici, anche se nella vicenda in questione non è emersa alcuna prassi di regali con finalità corruttiva. Le parole sono importanti, diceva qualcuno.

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  • Ermes Antonucci
  • Classe 1991, abruzzese d’origine e romano d’adozione. E’ giornalista di cronaca giudiziaria e studioso della magistratura. Ha scritto “I dannati della gogna” (Liberilibri, 2021) e “La repubblica giudiziaria” (Marsilio, 2023). Su Twitter è @ErmesAntonucci. Per segnalazioni: [email protected]

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