A tre anni dalla uccisione di Mahsa Amini, l’Iran è un paese bicefalo. I veli leggeri e le esecuzioni

Nessun analista si azzarda a immaginare le sembianze della fine del regime, né cosa accadrà dopo. E nel paese, nel frattempo, si ha la sensazione di sedere sopra una faglia, senza sapere quando arriverà il terremoto

A tre anni dalla morte di Mahsa Amini, l’Iran è più che mai un paese bicefalo. Da un lato la Repubblica islamica, incerta, fragile, spaventata, e dall’altro la società più stanca e più esasperata rispetto al 2022, ma anche più determinata a ritagliarsi, giorno dopo giorno, spazi di scandalosa normalità. A Teheran sotto i murales che strizzano l’occhio agli antichi miti persiani con la speranza di rinfocolare l’unità sotto l’ombrello rivoluzionario, camminano ragazze con il manteau corto, i capelli al vento e il velo drappeggiato sulle spalle, nessuno ricorda di aver visto un Moharram con altrettante chadori che rinunciano al nero integrale per indossare manteau colorati e veli leggerissimi, per le strade, in barba al rischio di multe, un numero inusitato di persone conduce cani al guinzaglio e agli incroci un numero più sconvolgente ancora di ragazze in motocicletta divarica le dita in segno di vittoria.

“Non possiamo forzare le donne a indossare l’hijab”, ha detto il presidente Massoud Pezeshkian quest’estate e intanto in Parlamento sono all’esame nuove norme che potrebbero autorizzare le donne a guidare la moto. Ma chi ipotizzasse l’avvento di un inedito corso riformatore da parte della nomenklatura islamica peccherebbe d’ingenuità. La verità è che la società si rifiuta di indietreggiare e che il regime, indebolito all’estero ed in crisi di legittimità in patria, sanguina su troppi fronti per potersi permettere lo scontro permanente, quindi, per il momento, accetta il fatto compiuto e finge di non vedere. Interpellato dal Financial Times, il sociologo Taghi Azad Armaki ha illustrato la situazione in questi termini: “Il nostro sistema politico sta affrontando problemi talmente gravi che la sua visione è annebbiata (…). Nel frattempo nella società si è innestato un cambiamento spontaneo e naturale”.

Ma nessuno si fa illusioni. “Quelli del regime sono ridicoli aggiustamenti tattici. Ci lanciano un osso per controllare se abbocchiamo”, commenta da Teheran un’attivista per i diritti umani al Foglio. Perché mentre il governo iraniano lascia correre sui cani e sulle mal velate che lo irridono sotto a un murales o in sella a una moto, il ritmo delle esecuzioni capitali per reati politico-religiosi aumenta in maniera inesorabile e Amnesty International denuncia “l’uso sistematico della pena capitale come strumento di sopraffazione”.

E però l’estrema violenza è anche e soprattutto il sintomo di una vulnerabilità senza ritorno. Secondo lo storico Ali Ansari, direttore dell’Institute for Iranian Studies dell’Università di St Andrews, “la Repubblica islamica così come la conosciamo è finita”. A colloquio con Dominik Presl per il podcast Decoding Geopolitcs, Ansari ha sottolineato la brevità dell’intervallo tra la scarica di adrenalina provocata dal sollievo per la fine della guerra dei dodici giorni e la ripresa vertiginosa del malcontento. “Non mesi, non settimane, ma giorni”, ha rilevato. E l’astio non si registra soltanto nei settori della popolazione già in rotta con il regime, ma anche tra i lealisti di default, non i radicali ultraortodossi pretoriani di Ali Khamenei, ma coloro che per vari motivi – familiari, ideologici, economici – hanno sempre ritenuto di aver più da perdere che da guadagnare dalla caduta del sistema. Si tratta di un dato significativo perché della minoranza fedele alle istituzioni della Repubblica islamica (il 10 o il 15 per cento della popolazione a seconda delle stime) questa è la componente maggioritaria. Ed è proprio in questi ambienti – ha proseguito Ansari – che serpeggiano le parole più furibonde nei confronti del regime, delle sue provocazioni e della sua incapacità di proteggere i cittadini. “Era la loro guerra e non la nostra”, è il filo rosso che unisce queste invettive, e un altro elemento interessante è che anche chi si definisce pronto a combattere per difendere il paese in caso di un nuovo attacco, dichiara di essere disposto a sacrificarsi in nome dell’Iran e della sua integrità territoriale e non più per conto della Repubblica islamica.

Per Ruhollah Khomeini gli otto anni di guerra con l’Iraq rappresentarono un collante per la giovane Repubblica islamica, per Khamenei, invece, la Guerra dei dodici giorni ha tutta l’aria di aver accelerato il declino. “Il regime è un morto che cammina”, rincara Karim Sadjadpour del Carnegie Endowment for International Peace. Ma nessun analista si azzarda a immaginare le sembianze della fine, né cosa accadrà dopo, e in Iran, nel frattempo, si ha la sensazione di sedere sopra una faglia, senza sapere quando arriverà il terremoto.

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