Una vita assorbita dalla scrittura: per il nuovo romanzo si è ritirata in un ranch in Virginia. I modelli, i libri pieni di immaginazione letti durante l’infanzia. Una chiacchierata con l’autrice premio Pulitzer per “Il cardellino”
Per partecipare a questa conversazione sul linguaggio, Donna Tartt si è ritagliata un paio d’ore di pausa dalla scrittura del suo quarto romanzo. I temi che tratta nei suoi libri, lontani da ogni moda e tendenza, e i tempi estenuati di scrittura, ne fanno un’autrice assolutamente anomala nel panorama della letteratura contemporanea: dopo aver debuttato nel 1992 con Dio d’illusioni, un best seller da cinque milioni di copie, ha atteso dieci anni prima di dare alle stampe Il piccolo amico e poi altri undici per Il cardellino, grazie al quale è stata insignita del premio Pulitzer. Da allora ne sono passati altri dodici, e per concentrarsi nella stesura del nuovo romanzo ha venduto l’appartamento newyorkese e si è ritirata a scrivere in un ranch in Virginia, non lontano da dove abita la madre, alla quale è legatissima. Originaria di Greenwood, nel Mississippi, è una donna di grande talento con una cultura solida ed eclettica, e un attaccamento orgoglioso alle proprie radici del sud, evidente anche dall’inflessione, lievemente strascinata. Rifugge ogni tipo di mondanità e la preziosa ricercatezza nel vestire indica che l’eleganza è qualcosa di rivolto innanzitutto a sé stessa, come per alcuni versi la stessa scrittura. “Per quel che ricordo non c’è stato un momento nel quale ho deciso di diventare una scrittrice” mi dice sorridendo “si è trattato di qualcosa che ho fatto e che poi ho continuato a fare. Era già successo quando ero a Bennington, esclusivo college del Vermont dove aveva deciso di studiare filosofia mentre Bret Easton Ellis e Jay McInerney approfondivano lo studio della letteratura”.
E’ affezionata agli amici di quel periodo, ma non li vede da molti anni: la sua vita è dedicata tutta alla scrittura, come mi spiega quando le chiedo se quando scrive prova un sentimento di urgenza o di gioia. “Il sentimento che provo è l’assorbimento”, risponde e poi aggiunge: “La sensazione di rendermi conto che è più tardi di quanto pensassi”.
C’è un autore che è stato fondamentale per la sua formazione?
Sarebbero troppi per fare l’elenco. Il fatto che io legga moltissimo ha rivestito un ruolo più importante di qualunque libro, e leggere o ascoltare qualcuno che legge ha rappresentato la mia principale fonte di sollievo e gioia. Quando ero piccola, le persone che amo di più in assoluto, mia madre e la mia bisnonna, leggevano per me ad alta voce, e questo rappresentava il modo preferito per passare il tempo. In seguito ho imparato a cercare libri autonomamente, quando ero giù, mi sentivo sola o ero malata: un’abitudine che è rimasta tuttora nei momenti buoni e in quelli cattivi. I libri che trovavo a casa erano opere piene di immaginazione del tardo Diciannovesimo secolo o dell’inizio del Ventesimo: Lewis Carroll, J.M. Barrie, Mark Twain, Robert Louis Stevenson, George MacDonald, A.A. Milne, Rudyard Kipling, i libri di Oz di Frank Baum, gli Sherlock Holmes di Conan Doyle e le fiabe di Andrew Lang. Li ho letti e riletti, e queste sono le voci che sono scolpite in profondità dentro di me. Naturalmente questi autori hanno aperto la porta ad altri scrittori come Charles Dickens, Nathaniel Hawthorne ed Edgar Allan Poe. A casa c’erano anche dei testi per bambini con un taglio più scientifico, ma io non li amavo e in seguito ho scoperto che non erano preferiti neanche dagli altri membri della famiglia. Ho voluto raccontarti tutto ciò per spiegare che sebbene non sia una fan del genere fantasy le opera piene di immaginazione sono state quelle che hanno rivestito un ruolo fondamentale nel mio percorso artistico. C’è un altro elemento ugualmente importante: sia mia madre che la mia bisnonna non leggevano libri illustrati ma romanzi, e questo ha formato le mie abitudini sin da quando ero bambina, così come il mio gusto per i romanzi lunghi.
Cosa pensa dell’affermazione di Robert Frost secondo cui la poesia e ciò che si perde nella traduzione?
Che si tratta di un aforisma efficace. Frost era molto bravo con queste battute argute, ma non sono sicura che lui stesso avrebbe difeso fino in fondo questa affermazione, sostenendo che si tratta di una verità assoluta. Per quanto mi riguarda la poesia non è quello che si perde, ma quello che viene scoperto o trovato. Lo stesso Frost ha affermato qualcosa di simile cambiando un po’ la direzione del precedente aforisma: “Un poema compiuto è quello in cui un’emozione ha trovato il suo pensiero e il pensiero ha trovato le sue parole”.
Ho chiesto ad Annie Proulx e Cathleen Schine se ritengono che il linguaggio delle immagini abbia cambiato quella della parola scritta. Lei che ne pensa?
Il mucchio di immagini infrante, che era così radicale quando Thomas Stearn Eliot ne scrisse nella Terra desolata, contiene in qualche modo qualcosa del tremolio dei primi film, e quello che lui chiamava cento anni fa la correlazione oggettiva – l’immagine cinematografica muta che evoca una particolare emozione, come il suo famoso paziente anestetizzato – oggi è completamente integrato nel linguaggio e nella letteratura, al punto che la gente ha smesso di rendersene conto già nella seconda parte del Ventesimo secolo. Joan Didion ha scritto: “Specialmente se siamo scrittori, noi viviamo interamente sull’imposizione di una linea di narrativa su immagini disparate e sulle idee con le quali abbiamo imparato a congelare la fantasmagoria cangiante che è la nostra reale esperienza”. La tecnica che descrive e il linguaggio del quale parla provengono direttamente dal cinema. In tempi passati, nel Diciannovesimo secolo e anche precedentemente, gli scrittori cercavano di stabilizzare la fantasmagoria cangiante attraverso la voce narrante, sperando di distillare l’esperienza in qualcosa che avesse più risonanza, fosse più a misura d’uomo e coerente al proprio interno. Si tratta di un approccio ancora valido, ma il cinema non è più un’esperienza limitata da confini. La natura disconnessa e sempre cangiante della nostra cultura visiva tinge ogni nostro momento in modi che noi non riusciamo più a notare – frammentando il nostro linguaggio e i nostri modi di raccontare le storie, ma anche il nostro stesso senso della realtà – secondo codici che gran parte degli scrittori del Ventesimo secolo non potevano anticipare. Uno dei pochi che è riusciti a farlo, comprendendo la direzione in cui ci stavamo avviando, è stato William S. Burroughs. Io sono convinta che mentre la cultura degli schermi continua a espandersi rapidamente e in maniera imprevedibile su numerosi fronti diversi, il linguaggio continuerà a cambiare attraverso modalità che gran parte di noi non riesce a immaginare.
Ritiene che esiste qualcosa che la letteratura possa fare meglio del cinema?
A rischio di affermare l’ovvio, la letteratura è un mezzo per esprimere l’interiorità e lo spirito. E’ capace di portarci direttamente nella mente e nelle emozioni di un altro essere umano come nessun’altra forma espressiva: prende vita dentro di noi una coscienza differente dalla nostra e possiamo provare l’esperienza di essere qualcun altro – spesso qualcuno molto differente da noi e a volte neanche un essere umano: un cane o una tigre. Un mostro o un fantasma. Nessuna altra forma d’arte riesce a fare questo. Nella Difesa della poesia, Percy Bysshe Shelley ha scritto: “Un uomo per essere veramente grande deve immaginare con intensità e in maniera comprensiva; deve mettere se stesso al posto di un altro; i dolori e i piaceri della sua specie devono diventare i suoi”. La letteratura è il mezzo che facilita nella maniera più efficace questo tipo di empatia radicale. Grazie al modo in cui infonde nella nostra anima i pensieri degli altri, la letteratura è capace di cambiare anche la maniera con cui la gente pensa: a volte con rapidità e a volte imprevedibilmente su larga scala. Le teorie di Karl Marx sono state influenzate profondamente dalle letture dei romanzi di Charles Dickens, e George Bernard Shaw scrisse correttamente che La Piccola Dorrit è un libro più sedizioso del Capitale. E ovviamente sappiamo tutti come i libri religiosi quali la Bibbia e il Corano possano alterare la realtà degli individui e delle nazioni. Potrei continuare, ma anche in questi giorni in cui la letteratura sembra in declino, il cinema non è stato in grado di esercitare cambiamenti così profondi sia nelle persone che nella società.
Cosa può fare invece il cinema meglio della letteratura?
Il cinema è più accessibile della letteratura – sia nei confronti di un bambino che di un adulto sofisticato – e viene assimilato più facilmente dallo spettatore. Registra più fedelmente ciò che è in superficie e lo replica, si muove più velocemente e prende scorciatoie. Dal momento che è una forma d’arte popolare è una lingua franca nella nostra cultura. La gente tende a essere molto più informata sui film e ognuno ha un’opinione. (Era Gore Vidal che diceva che ai giorni nostri ognuno è un critico cinematografico, comprese le nostre zie, i parrucchieri e i camerieri?). Ma a causa della complessità del processo – le molte variabili imprevedibili, gli attori, la fotografia, le luci, la scrittura e la riscrittura, l’improvvisazione e molti altri fattori – alcuni film hanno qualcosa di realmente magico. Josef von Sternberg parlava in maniera specifica degli elementi di forza del film quando ha dichiarato: “Ho sempre preferito qualcosa di poco chiaro che può condurre accidentalmente alla grandezza che una chiarezza che può al suo meglio generare qualcosa di mediocre”.
Chi adatta un romanzo deve rimanere fedele al testo originale o esser libero di tradirlo?
Dipende dal testo e dalla qualità del cineasta. Alcuni testi non hanno una forza propria e non sono particolarmente complessi. Più sono intricati e complessi, più sono astratti o intimi, e più devono essere alterati e trasformati in un film o in un’altra forma espressiva. Purtroppo è impossibile ridurre storie intime o più complesse, o storie che dipendono da una voce letteraria, a un linguaggio di immagini, senza distruggere le loro migliori qualità.
Ha mai usato l’intelligenza artificiale per le sue ricerche o per la sua scrittura?
Non sono sicura come potrebbe essere utile per uno scrittore di narrativa e in assoluto per me.
Quali sono i rischi e le opportunità dell’intelligenza artificiale?
A parte alcuni settori, quali la medicina, dove rappresenta già una realtà, la principale opportunità sembra che sia in realtà per le compagnie e per chiunque possa fare una fortuna plagiando la proprietà intellettuale. Altrimenti vedo solo rischi, per il governo, per l’ambiente, per l’economia, per gli artisti dai quali sono stati presi a loro insaputa o senza il loro consenso la loro voce in modo da sviluppare questa tecnologia per il futuro dell’educazione: (perché un giovane dovrebbe fare il duro lavoro di imparare a scrivere o dipingere o dare una struttura a un’idea o anche fare ricerche in profondità su un argomento quando può soltanto spingere un bottone?). Questo ovviamente lascia fuori il rischio esistenziale, che è ancora più grande, e le cui conseguenze, ancora imprevedibili, evolveranno certamente insieme a tecnologie così veloci, aggressive, senza regole e violente. “Abbiamo perso tutto, ma almeno abbiamo dei testi preveggenti”: è una frase del mio amico romanziere John Darnielle, che mi è rimasta dentro.
Le fake news sembrano avere la stessa rilevanza della realtà. C’è un modo per combattere questa patologia?
A costo di dire l’ovvio: internet e le falsità generate dall’intelligenza artificiale sono direttamente responsabili nell’erosione della realtà del consenso: più una persona si tiene lontano dall’ecosistema di Internet e sterza verso fonti meno incendiarie e più neutrali, più ha possibilità di non essere dirottato verso la falsità.
Un tema che sto discutendo con gli scrittori è il rapporto tra arte e potere: ritiene che la cultura e l’arte debbono essere sempre in opposizione rispetto chi comanda?
L’arte resiste di fronte a parole come sempre. Certamente l’arte può, e spesso è, un’arma potente contro ogni potere di controllo. Rappresenta tuttavia una verità meno riconosciuta il fatto che l’arte smette di essere tale e si deteriora fino a diventare propaganda se l’artista prova con troppa forza a strumentalizzarla e a renderla un’arma, al punto che i suoi obiettivi rischiano di diventare un boomerang che dà energia al potere che intende deridere. Molte opere d’arte più indipendenti e introiettate verso l’interno esistono insieme ai poteri più grandi senza necessariamente opporsi ad essi. Altre, senza l’impalcatura del potere non possono esistere sin dall’inizio. Non avremmo avuto Michelangelo se non fosse stato al servizio della Chiesa cattolica, o Virgilio se non fosse stato leale ad Augusto e all’impero romano.
Proviamo a calarci nella politica di oggi. Sembra che il mondo liberal, oggi quasi ovunque all’opposizione, sia sempre più elitario: lei è d’accordo? E come è successo?
Mi perdonerà, ma non sono convinta che questa domanda sia rilevante oggi come sarebbe stata fino a pochi anni fa. Grazie a un numero di fattori quali i social media e un ciclo sempre più veloce con cui circolano le notizie, sembra che abbiamo superato alcuni confini decisivi, dove termini antichi e condivisi come la dicotomia liberal contro conservatori rappresenta più spesso le basi per risse futili invece che un terreno costruttivo per una discussione. Gli stessi termini liberal e conservatore sono diventati scivolosi ed elastici, dal momento che sono impiegati in maniera utile a polarizzare e a dividere: per scudisciare sulla nostra rabbia e tenerci eccitati e separati nei nostri piccoli mondi frammentati e curati in maniera algoritmica.
Provo a formulare la domanda in maniera diversa: i populisti in ogni parte del mondo sembrano avere un contatto con gli elettori molto più efficace di quello dei partiti tradizionali, specialmente quelli della sinistra.
Nulla di nuovo: Platone ha riassunto tutto già nel V secolo prima di Cristo: “Il popolo voterà chi prometterà di più, e facendo così rinuncerà alla propria libertà”.