Nel giro di otto mesi al massimo la Banca centrale americana, pur indipendente per statuto, sarà fortemente influenzata dalla politica, il che non avveniva dagli anni Settanta. Inutile farsi illusioni, anche la Federal Reserve sarà nelle mani di Trump
Quando, a seguito della reazione fortemente negativa dei mercati finanziari, Trump annunciò di voler fare marcia indietro e di rinunciare al licenziamento del presidente della Federal Reserve Jerome Powell, qualche mese fa, furono in molti – incluso chi scrive – a tirare un sospiro di sollievo. Cambiare il presidente della Banca centrale sarebbe stato un grave errore. Avrebbe colpito duramente l’indipendenza dell’istituzione monetaria, che è uno dei pilastri della credibilità del dollaro nel sistema monetario internazionale.
Dobbiamo ora ammettere che ci eravamo sbagliati. Trump non ha rinunciato all’obiettivo di assoggettare la Banca centrale al controllo politico. Ha solo cambiato il modo per raggiungerlo. Piuttosto che chiedere direttamente le dimissioni di Powell, cerca ora di accerchiarlo con dei suoi fedeli. La prima occasione è arrivata con le dimissioni di uno dei sette governatori del Board che siede a Washington, Adriana Kugler, all’inizio di agosto. Nel giro di qualche giorno, Trump ha nominato al suo posto Stephen Miran, capo di suoi consiglieri economici. La conferma da parte del Congresso è avvenuta in tempi record, per consentirgli di partecipare alla decisione sui tassi d’interesse, la settimana prossima. E’ irrituale anche il fatto che Miran non si sia dimesso dalla sua posizione presso la Casa Bianca, accontentandosi di chiedere l’aspettativa.
Con la nomina di Miran, i dissenzienti dalla politica monetaria proposta da Powell passano da due governatori – quelli nominati da Trump nel suo primo mandato – a tre, su un totale di sette membri del Board. Avrebbero potuto essere addirittura quattro su sette, e così cambiare da subito la maggioranza, se Trump fosse riuscito a far dimettere Lisa Cook, accusata di aver dichiarato il falso in una sua richiesta di mutuo immobiliare. Il colpo non è tuttavia andato in porto, perché il giudice federale ha stabilito che il presidente non ha l’autorità di far dimettere Cook almeno fin quando non viene dimostrata la sua colpevolezza. Trump ha comunque fatto appello ieri e spera di averla vinta a breve. A poco sono valsi i tentativi di conciliazione avanzati da Powell per frenare le pressioni di Trump. Nella conferenza annuale di fine agosto a Jackson Hole, il presidente della Fed aveva aperto la porta a un taglio dei tassi d’interesse, poiché i rischi al ribasso sulla crescita e sull’occupazione sembrano oramai superare i rischi d’inflazione, che rimane comunque superiore al due per cento. I dati recenti spingono i mercati ad anticipare un taglio di almeno venticinque punti base la prossima settimana, se non addirittura di cinquanta.
E’ probabile che la settimana prossima il nuovo arrivato Miran, e forse anche gli altri due, chiedano una riduzione ancor più decisa dei tassi, se non altro per mettere in difficoltà Powell e per lanciare un messaggio nei confronti degli altri componenti del Fomc (Federal Open Market Committee) che include i presidenti delle dodici banche regionali, di cui cinque partecipano al voto, a rotazione. In effetti, i presidenti delle banche regionali sono tradizionalmente più conservatori e meno condizionati dalla politica. Tuttavia, la nomina dei presidenti regionali scade nel marzo del 2026 ed è soggetta all’approvazione del Board di Washington. Già in occasione della nomina di uno dei presidenti della banca regionale di Chicago, due governatori – proprio quelli nominati da Trump – si astennero. Un fatto senza precedenti. Chi intende prendere posizioni troppo intransigenti nelle prossime decisioni sui tassi d’interesse è avvertito.
Il balletto di nomine si concluderà comunque a maggio dell’anno prossimo, quando scadrà il mandato di Powell. Verrà allora sostituito da un uomo fedele del presidente. La procedura di selezione è già stata lanciata, con un certo rilievo mediatico. L’ipotesi che Powell rimanga per finire il suo mandato di semplice governatore, come avrebbe diritto, fino all’inizio del 2028, senza la carica di presidente, appare remota. In sintesi, nel giro di otto mesi al massimo la Banca centrale americana, pur indipendente per statuto, sarà fortemente influenzata dalla politica, il che non avveniva dagli anni Settanta. L’ultimo siluro è stato lanciato qualche giorno fa dal segretario al Tesoro, Scott Bessent, in un articolo sul Wall Street Journal che annuncia una revisione del mandato della Banca centrale. I suoi poteri verranno circoscritti alla determinazione dei tassi d’interesse e all’erogazione del credito di ultima istanza, mentre le verrà tolta la responsabilità di vigilare sul sistema bancario. Senza le informazioni di vigilanza, che consentono di verificare la solvibilità banche in difficoltà, l’erogazione del credito in situazioni di crisi viene in questo modo assoggettata al potere politico. L’intenzione sembra essere quella di estendere la rete di salvataggio della Banca centrale alle istituzioni non bancarie, come gli emittenti di criptovalute.Tutto ciò avviene senza alcuna reazione da parte dei mercati finanziari, contrariamente a quello che era avvenuto qualche mese fa. La prospettiva di nuove riduzioni dei tassi d’interesse proietta Wall Street verso nuovi record, relegando tutto il resto in secondo piano. Per ora.