Al Thani vede Trump a New York e gli chiede compensazioni dopo l’attacco di Doha. Il futuro incerto del negoziato su Gaza e la paura di essere il prossimo obiettivo dell’Idf
Per il mondo arabo sono già tutti dei “martiri” e i corpi dei leader di Hamas uccisi martedì scorso nell’attacco israeliano di Doha erano avvolti nella bandiera palestinese, all’ombra dei minareti della moschea di Abdul Wahhab, la più grande della capitale qatarina. Al funerale dei terroristi era presente anche l’emiro Tamim bin Hamad al Thani, che in questi giorni ha accolto la delegazione degli Emirati Arabi Uniti e quella dell’Egitto, giunte nel Golfo per portare la propria solidarietà. Ma finito il tempo delle preghiere, l’attenzione si è spostata a New York, dove è volato Mohammed bin Abdulrahman al Thani. Il premier del Qatar ha partecipato giovedì alla riunione di emergenza convocata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, mentre ieri ha avuto un vertice con Donald Trump. Una cordiale resa dei conti, perché le relazioni strette fra il presidente americano e la famiglia al Thani sono per i qatarini quasi un’aggravante di quello che considerano un tradimento da parte degli americani, colpevoli di non avere avvertito in tempo Doha dell’attacco imminente e per non avere reagito duramente contro Israele. Al Thani ha chiesto a Trump una sorta di compensazione che, potrebbe prendere la forma di un nuovo accordo di cooperazione militare. La versione di Doha è che il prezzo pagato dal piccolo paese del Golfo dal 7 ottobre a oggi sia già piuttosto elevato: prima l’attacco dell’Iran a giugno, ora quello israeliano. Per il Qatar è ora di riscuotere la solidarietà americana.
Prima del bilaterale, ieri l’Assemblea delle Nazioni Unite ha votato in favore della cosiddetta “dichiarazione di New York” proposta da sauditi e francesi e che dovrebbe rilanciare l’idea della soluzione “due popoli, due stati” senza alcun ruolo per Hamas. La decisione rischia però di restare lettera morta, perché arriva all’indomani della presa di posizione da parte del premier israeliano, Benjamin Netanyahu: “Manterremo la promessa: non ci sarà mai uno stato palestinese”, ha dichiarato a un evento a Maale Adumim in cui ha anche annunciato il progetto di espansione degli insediamenti in Cisgiordania.
“Spero che l’attacco non condizionerà i negoziati su Gaza”, ha auspicato Trump giovedì, confermando la sua contrarietà all’attacco di Israele contro il Qatar. E mentre ieri la leadership di Hamas ha ribadito che l’attacco di Doha non cambierà le richieste dei terroristi già presentate fino a oggi ai negoziati, il futuro delle trattative per un cessate il fuoco nella Striscia resta un’incognita. “Non è chiaro cosa succederà adesso tra Israele e Hamas”, spiega al Foglio Brian Katulis del Middle East Institute di Washington. “Si può immaginare che il centro di gravità dei negoziati si sposterà altrove, in Egitto forse. Ma il Qatar continuerà ad avere un ruolo chiave nelle trattative, perché conserva legami profondi con la leadership di Hamas. E’ probabile che assisteremo a un congelamento iniziale dei negoziati, ma che qatarini e israeliani continueranno a coordinarsi dietro le quinte”. L’attacco di Doha ha però allontanato ogni prospettiva di allargare la normalizzazione delle relazioni con Israele. “L’Arabia Saudita era già riluttante prima, per via della guerra a Gaza. E dopo il 9 settembre, l’idea di aderire agli Accordi di Abramo è sempre più remota”.
Difficile decifrare i prossimi sviluppi, soprattutto riguardo alla forma che potrebbero prendere i negoziati con Israele. Per Giorgio Cafiero, ceo della società di consulenza Gulf State Analytics basata a Washington, “l’attacco di Doha dimostra che per Israele il momento dei negoziati è finito. La sua strategia ora è completamente concentrata sulla soluzione militare, sull’annichilimento di Hamas con l’uso della forza ovunque si trovino i suoi membri, dalla Siria al Libano al Qatar e non escludo nemmeno che la Turchia possa restare immune in futuro”.
All’indomani dell’attacco, il premier al Thani ha promesso una risposta concertata fra tutti i paesi del Golfo contro Israele. “Ma anche su questo punto è difficile immaginare qualcosa in più di dichiarazioni formali, gesti politici o simbolici”, spiega Katulis. “Non dimentichiamo che Israele e Qatar condividono ancora lo stesso nemico che resta l’Iran”. Qualcosa però è cambiato dopo il 9 settembre, come conferma una fonte diplomatica degli Emirati Arabi Uniti sentita giovedì da Bloomberg: “Siamo stati colti di sorpresa dall’attacco. Ma cominciamo a pensare che Israele stia seguendo le orme dell’Iran nel diventare una minaccia per la regione”. E’ proprio questo attacco allo status quo che più temono le cancellerie del Golfo, dove il sentimento è riassumibile in una parola: paura. “Il timore del caos è il collante che sta avvicinando fra loro i paesi arabi in questo momento, che dopo il 9 settembre danno l’impressione di essere più uniti di prima, pronti a superare anche le rispettive divergenze che avevano finora su diverse questioni, prima fra tutte il sostegno di Doha ai Fratelli musulmani e a Hamas – spiega Cafiero – Non che queste divisioni siano scomparse, ma per ora sono state messe da parte”. “L’idea che accomuna in questo momento i paesi arabi della regione è che Israele stia diventando un pericolo per la stabilità ancora più di quanto non lo sia Hamas. Si chiedono: se hanno attaccato il Qatar, che è alleato degli Stati Uniti, cosa dovrebbe convincere Netanyahu a non fare lo stesso anche con gli altri paesi arabi?”.