Una Schadenfreude mal riposta: se crollano loro, crolliamo tutti. La crisi dei partiti, il debito pubblico, i populismi, l’incapacità di considerarsi “normali” in Europa. Come orientarsi nel labirinto
I tedeschi hanno una parola composta non traducibile se non con una frase: Schadenfreude, la gioia che si prova per il male altrui, non sempre dei nemici, ma ancor più degli amici verso i quali coviamo invidia. E’ a questo che fanno pensare certi commenti sui guai che attraversano adesso la Francia, guai economici e politici. Guai che gli italiani conoscono bene. Per metterli in fila abbiamo stilato un nostro dizionario, zigzagando tra politica ed economia, cultura (quanto è importante la culture di là e di qua dalle Alpi) e costume, livori e ardori, passioni e illusioni. Dall’A alla Zeta ecco la nostra Francia certo non una “douce France” come vuole la canzone di Charles Trenet, ma piuttosto una triste France.
A – Alarme. Cosa succede se la Francia crolla? Si sente in giro una gran voglia di rivalsa. La Francia? Sta peggio dell’Italia. Che goduria. I boriosi francesi non hanno più nulla da insegnarci. E’ vero, vien voglia di rinfacciare i sorrisetti che Nicolas Sarkozy e Angela Merkel rivolsero a Silvio Berlusconi quando la crisi del debito sovrano nel 2011 stava per travolgere l’Italia. E’ vero, sarebbe da contrapporre alle giravolte di Emmanuel Macron la determinazione con cui Giorgio Napolitano puntò su Mario Monti e gli diede licenza di tirare la cinghia, con il sostegno che quel governo di emergenza ottenne da forze politiche ormai sull’orlo del burrone. François Bayrou ci ha provato, ma il parlamento ha scelto il burrone. Tuttavia ogni recriminazione è sciocca e controproducente. Troppo ci lega alla Francia, primo mercato di sbocco per le nostre merci, ma non solo. Soprattutto c’è la questione di fondo: un fallimento francese trascina con sé l’intera Unione europea e innesca una crisi mondiale. Oggi più che mai la Schadenfreude è mal riposta.
B – Bayrou. Altro che agnello sacrificale, all’Assemblea nazionale lo hanno massacrato: una lunga fila di politici di brevissimo corso ha fatto a pezzi un politico di lungo corso, moderato, centrista, cattolico, per bene, che ha avuto il torto di dire in faccia la verità. Povero François Bayrou. E’ uscito a testa alta pronunciando una frase nobile: “Voi avete il potere di far cadere il governo, non di cancellare la realtà”. Non si aspettava certo di durare, ma nemmeno di essere strapazzato così vergognosamente. Il suo piano prevedeva di risparmiare 40 miliardi di euro, però non annunciava lacrime e sangue, era solo un palliativo. Che cosa sono di fronte a un buco di 169 miliardi? Il disavanzo dello stato oggi pari al 5,6 per cento del pil, sarebbe sceso di appena un punto per arrivare verso il 3 per cento solo nel 2029, in realtà chissà quando. Salvo fugaci intervalli, la Francia non ha mai rispettato il patto di stabilità. Non c’è da versare né lacrime né sangue, ma la classe politica si commuove facilmente, quanto al sangue le sale subito agli occhi.
C – Cocteau. I francesi sono italiani di cattivo umore, diceva il grande scrittore, e l’autore de “I parenti terribili” se ne intendeva. Umore a parte, oggi sembrano fratelli non cugini. Il sistema politico italiano si era retto per mezzo secolo su due grandi partiti di massa, la Dc al governo e il Pci all’opposizione. Quando sono collassati negli anni ‘90 quel sistema è crollato su se stesso e sono seguiti decenni di incertezza e instabilità. In Francia è caduto il partito gollista, una formazione di centro-destra ramificata nell’intero paese, fondata sulla piccola borghesia, con i suoi valori tradizionali (Dio patria e famiglia), ma anche laica e sostanzialmente interclassista. Potremmo paragonarla alla Dc. Dall’altra parte una sinistra di governo basata sul partito socialista soprattutto quello rifondato da François Mitterrand, mentre il partito comunista si era condannato all’opposizione anche perché più filo sovietico del partito italiano. I comunisti sono scomparsi e gli amici di Mosca oggi stanno sia a destra sia a sinistra, in Francia come in Italia. Il partito socialista si è ristretto fino a diventare irrilevante surclassato dal populista Jean-Luc Mélenchon. A destra è rimasto in piedi e si è rafforzato un solo partito, quello fondato da Jean-Marie Le Pen. Il tentativo di raggruppare attorno a Emmanuel Macron una formazione centrista e progressista, non è riuscito. E il sistema politico francese vacilla. Quel che lo tiene in piedi è la presidenza della repubblica (vedi alla voce Président). Ci sono stati tre periodi in cui il presidente era di sinistra, il primo ministro di destra e viceversa, questa cohabitation sembrava l’uovo di Colombo, una soluzione quasi perfetta che avrebbe inorgoglito Montesquieu. Ma non è durata perché si sono sparpagliati i partiti e si è indebolito il presidente, la sua figura e il suo ruolo.
D – Défaut. Se si chiede in giro qual è il difetto principale dei francesi la maggior parte risponde l’arroganza. In realtà anche gli italiani sono arroganti sia pure a modo loro: quella italiana è un’arroganza velleitaria per coprire debolezze non risolte, quella francese è supponenza. Prendiamo il male comune, il debito. Gli italiani dicono di volerlo ridurre, in realtà nemmeno nei momenti migliori è mai sceso sotto il 105 per cento del pil, ma hanno venduto in giro per l’Europa e per il mondo la speranza che prima o poi si accenda lo stellone italico. La Francia ha sempre supposto che poteva considerare il debito una sciocchezza, una pinzillacchera, perché nessuno avrebbe mai potuto far nulla contro il paese chiave dell’Unione europea, ricco e potente. Anche quando il debito saliva le agenzie di rating confermavano i loro voti alti ritenendo impossibile che lo stato francese possa dichiararsi insolvente. Bruxelles imponeva multe e poi chiudeva un occhio. Troppe spese, poche entrate, tanti deficit che anno dopo anno hanno portato il debito pubblico al 116 per cento del prodotto lordo. I tassi pagati sui titoli di stato decennali ormai hanno raggiunto il livello italiano, cioè circa il 3,5 per cento, chi li compra si fida sempre meno. La Francia sta un po’ peggio se calcoliamo il debito in termini assoluti (è arrivato a 3 mila 473 miliardi di euro circa 420 miliardi più di quello italiano), ma paga quasi 74 miliardi per gli interessi pari al 2,5 per cento del prodotto lordo invece di 88 miliardi (il 3,2 per cento del pil) come l’Italia. Insomma i francesi ci stanno a ruota.
E – Eiffel. Chissà se oggi Gustave Eiffel che ne ha progettato la struttura interna e Auguste Bartholdi che l’ha rivestita regalerebbero la statua della libertà agli Stati Uniti. Le due repubbliche nate da rivoluzioni sorelle, generate entrambe dal secolo dei Lumi, hanno cambiato volto e per molti versi anche sostanza. Nel corso dell’ultimo secolo gli americani hanno aiutato i francesi con il sangue dei loro figli, poi nel secondo dopoguerra sono prevalse gelosie, rivalità, conflitti tra interessi divergenti: l’occupazione del canale di Suez nel 1956, insieme a inglesi e israeliani, contrastata dagli americani, la guerra d’Algeria, le ambizioni post coloniali in Africa, la force de frappe, le bombe atomiche francesi tenute fuori dalla Nato, la “guerra dei cieli” tra Airbus e Boeing. La stessa idea di libertà non è identica a Parigi e a Washington. Tuttavia tra i due paesi esiste una corrente forte al di là di tutto quel che li divide. In fondo lo stesso Donald Trump sembra intendersi più con Macron che con Keir Starmer non solo perché il premier britannico è laburista, ma perché con lui non c’è partita.
F – Finance. L’alta finanza è una istituzione francese ed è stata per almeno due secoli pilastro del paese. Basti pensare al barone James Mayer de Rothschild re dei denari e patrono delle arti nella Parigi ottocentesca. Nella maison Rothschild si sono formati in tempi più vicini a noi due presidenti come Georges Pompidou e Emmanuel Macron. Oggi anche questa casta è divisa non solo dagli affari, ma dalla politica. Vincent Bolloré si è messo in testa di diventare punto di riferimento della destra radicale, il suo progetto affidato a Éric Zemmour è naufragato alle presidenziali del 2022, ora ha virato verso Jordan Bardella il volto “pulito” del partito fondato da Jean-Marie Le Pen. Bolloré è il principale azionista di Vivendi il maggior gruppo mediatico francese, ma le sue avanguardie a destra sono i due canali tv C8 e CNews ai quali s’affianca ormai Le Journal du dimanche, mentre Paris Match, la radio Europe 1, e lo stesso Canal + hanno un target di massa più trasversale. Non è l’unico patron in campo. Bernard Arnault il gran capo di LVMH ha un’amicizia di lunga data con Donald Trump (lui e famiglia erano ben in vista all’Inauguration Day). L’arcirivale François-Henry Pinault era stato macroniano della prim’ora, adesso si guarda attorno. Bouygues, Dassault, Lagardère, già solidi pilastri gollisti o comunque del centrodestra (Serge Dassault era stato anche sindaco e senatore) sono in cerca di una casa politica dalle solide mura. Tutti ormai pensano al dopo Macron.
G – Grandeur. L’ultima dimostrazione l’ha offerta l’inaugurazione delle Olimpiadi di Parigi un anno fa. Un pallido esempio delle aspirazioni di Charles de Gaulle. L’idea ha radici in un passato oggi improponibile. Indro Montanelli ricordava di aver sentito dire al generale: “Signori, la Francia, per diventare la Francia, ha speso sei secoli di storia e di sangue, e sessanta re. E ora dovrebbe contentarsi di ridiventare un pezzo d’Europa e basta?”. In campagna elettorale anche Macron aveva evocato la grandeur e la Francia si sente ancora proiettata sulla scena mondiale come potenza in qualche modo ideale più che politica o economica, come portatrice di valori universali inquadrati nella cornice dell’Unione europea. L’invasione russa dell’Ucraina ha rilanciato questa ambizione e le ha dato un substrato anche militare (vedi alla voce nucléaire). La grandeur ormai si chiama “sovranità europea”, l’ha proclamata Macron, difficile che possa vederla prima che lasci l’Eliseo fra un anno e mezzo.
H – Hotel de Galliffet. Questo palazzo settecentesco con giardino, costruito per Alexandre de Galliffet presidente del parlamento di Aix-en-Provence e terminato in piena rivoluzione francese, è uno snodo importante del rapporto tra Italia e Francia. Lì ha giocato il piccolo Eugène Delacroix prima di diventare il maggior pittore francese a cavallo tra 700 e 800, lì ha tessuto le sue tele sottili e intricare Charles Maurice de Talleyrand principe di Benevento, quando, dopo aver servito Napoleone, divenne primo ministro nel 1815 e guidò la Restaurazione. Sede dell’ambasciatore italiano nel 1972 ora ospita l’Istituto italiano della cultura e in pochi paesi come tra Italia e Francia la cultura è potere, morbido, soft power, ma pur sempre potere. Gli Hôtel particulier sono stati per secoli residenze della classe dirigente francese e oggi lo sono della classe politica. Matignon per il primo ministro, l’Eliseo per il presidente, Sully centro dei monumenti nazionali, il Quai d’Orsay nato per stranieri di riguardo e diventato un palazzone ottocentesco per il ministero degli esteri. Nella toponomastica del potere la Francia ha preso gli edifici del rococò fiorito, l’Italia l’eredità della nobiltà papale (come Chigi) e ha addirittura occupato il palazzo del pontefice, il Quirinale. C’è da scriverci un libro, ma il parallelo tra i luoghi e il potere appare evidente anche a un primo sguardo. E questo ci introduce alla prossima voce del nostro dizionarietto.
I – Italie. Si può risalire nei secoli per raccontare i corsi e ricorsi tra italiani e francesi. Dall’invasione di Cesare alla contro invasione di Enrico VIII, da Napoleone Bonaparte a Napoleone III, dai bersaglieri agli zuavi. Una lunga storia tutta da leggere e gustare. Il 23 giugno 1959 Charles de Gaulle diventato presidente nella sua repubblica presidenziale, scelse l’Italia per il primo viaggio ufficiale all’estero. L’occasione era commemorare le battaglie di Solferino e Magenta che aprirono la strada all’unità d’Italia grazie proprio alla Francia. Un simbolo fortissimo di alleanza e amicizia. A Milano si raccolse una gran folla per salutare con calore il generale. Amintore Fanfani che aveva perso da poco il posto di capo del governo si convinse più che mai che anche in Italia ci voleva un presidente così (ovviamente lui stesso). La Francia di Jean Monnet e Robert Schumann aveva aperto all’Italia le porte dell’Europa, anche se talvolta sono sembrate porte girevoli. L’allora ministro degli esteri, conte Carlo Sforza, evocò lo spirito del “diavolo zoppo”, alias Talleyrand. Eppure anziché rose e fiori per decenni Francia e Italia si sono scambiate corone di spine. Tra sgambetti, dispetti, competizione industriale ed economica, affinità elettive come quelle tra François Mitterrand e Bettino Craxi insieme all’odioso disprezzo tra Jacques Chirac e Silvio Berlusconi. Il trattato solenne firmato da Draghi e Macron al Quirinale il 26 novembre 2021 sembrava l’inizio di una nuova storia, invece il ciclo vichiano è ricominciato dal primo stadio. De Gaulle una volta disse che “l’Italia non è un paese povero, ma un povero paese”. E’ ora di dimostrare che non è così.
L – Le Pen. L’ex legionario Jean Marie Le Pen reduce dall’Indocina e dall’Algeria, quando nel 1972 fondò il Front National si ispirò al Movimento sociale, persino nel simbolo, la fiamma che sorge (dal sarcofago mussoliniano). Lo ricordava con orgoglio ogni volta che un giornalista italiano lo intervistava nel suo castello di Saint Cloud, guardando l’interlocutore dall’unico occhio buono (l’altro l’aveva perso non in battaglia come faceva credere, ma a caccia). Entrato presto nel gioco politico e usato da Mitterrand per strappare voti ai gollisti (il sistema elettorale fu cambiato da maggioritario a proporzionale per poi tornare alle origini), è stato in realtà lo spauracchio agitato dalla destra “repubblicana” più ancora che dalla sinistra. La figlia diletta Marine ha preso in mano le redini faticando a liberarsi di cotanto padre, finché, sconfitta da Macron alle presidenziali del 2017, non ha deciso anche lei una svolta simile a quella di Gianfranco Fini che Jean-Marie considerava un traditore. Nel 2018 il partito ha cambiato nome (Rassemblement parola inclusiva anziché Front che esclude), ha ammorbidito antisemitismo, xenofobia, nazionalismo, anti europeista. E’ vero, ha preso i soldi da Vladimir Putin, anche se questo aspetto sembra caduto nel dimenticatoio così come il forte simbolismo della fiamma tricolore che resta, come quella del Msi in Fratelli d’Italia. L’ascesa del giovane Jordan Bardella rivelatosi non solo di bell’aspetto, ha aumentato i consensi; oggi potrebbe andare al governo, fino a poco tempo fa era impensabile; c’è chi lo chiama Meloni in pantaloni. Ma forse è la Francia ad essere cambiata più del lepenismo.
M – Macron. La sua parabola è più lunga del previsto, ha ottenuto la rielezione eppure non è stato in grado di mettere radici. Il centro così come la destra “repubblicana” ora non hanno eredi, la sinistra riformista forse non li ha mai avuti. Lo avevano etichettato come “il miglior ministro dell’economia di destra che la sinistra abbia avuto” quando faceva parte del governo guidato dal socialista Manuel Valls dal 2014 al 2016. Macron stesso si è definito “social-liberale”, era stato vicino a Jean-Pierre Chevènement, ma nello stesso tempo aveva confessato un rimpianto perché “la figura del re è oggi assente dalla politica francese”. Davvero ha governato così male da attirare su di sé l’odio di gran parte della nazione? In tutti questi anni ha spinto il piede sull’acceleratore rinnovando l’economia con tagli alle tasse e riforme del mercato del lavoro. L’ansia competitiva ha aumentato la già diffusa ansia sociale, mentre il presidente credeva di trovare un consenso più ampio spendendo e spandendo. Da quando è stato rieletto nel 2022 ha esercitato ben 23 volte l’articolo 49.3 della costituzione che consente di scavalcare l’Assemblea nazionale, più di quanto abbia fatto qualsiasi governo negli ultimi trent’anni. Macron ha creato posti di lavoro, ha nutrito la crescita, e portato frotte di investitori a Parigi (la capitalizzazione della borsa è al secondo posto dopo Londra) ma ha mancato di dare ai cittadini il senso di sicurezza che prima la pandemia poi le turbolenze internazionali richiedevano.
N – Nucléaire. Il 25 luglio a Londra il primo ministro britannico Keir Starmer e il presidente francese Emmanuel Macron hanno raggiunto un accordo definito dal premier laburista “un momento storico per il mondo” sull’uso delle bombe atomiche: 515 testate (290 francesi e e 225 britanniche) in grado di colpire a 8 mila chilometri (Mosca ne dista 5 mila). “Siamo le due nazioni nucleari in Europa – ha detto Starmer nella conferenza stampa – e abbiamo concordato di fare un incredibile passo avanti in relazione a come coordiniamo le nostre capacità a sostegno dell’Europa e della Nato”. I deterrenti nucleari nazionali restano indipendenti, ma verranno d’ora in poi coordinati. La difesa europea congiunta sarà garantita anche sul piano convenzionale, con la costruzione assieme di missili anti-nave di nuova generazione e tutta una serie di armi avanzate, incluse quelle basate sull’IA. E soprattutto con l’espansione fino a 50 mila uomini della forza di reazione rapida franco-britannica, che viene rifocalizzata sulla difesa dell’Europa e resa pronta a combattere. La Germania sembra pronta a chiudere il triangolo. L’esercito comune europeo forse sarà un sogno, la difesa comune è un progetto che ha cominciato a muovere le sue gambe. E l’impegno a mettere insieme il potenziale nucleare è il pilastro fondamentale.
P – Président. Non ci sono più i presidenti di una volta. Ovvietà a parte, è proprio così. L’ultimo di rilievo nella destra repubblicana è stato Jacques Chirac. A sinistra François Mitterrand ha lasciato il vuoto. Nicolas Sarkozy e François Hollande sono stati attori di secondo piano, se non addirittura comparse. Macron avrebbe potuto essere quel che non è stato, ha suscitato tante speranze e provocato troppe delusioni. La costituzione della quinta repubblica voluta dal generale de Gaulle nel 1958 era stata definita un golpe bianco da Mitterrand che poi se ne sarebbe ampiamente giovato. La svolta gollista ha dato molti, forse troppi poteri al presidente, ma gli ha affidato anche il ruolo di sostegno politico-istituzionale di fronte a una classe politica conflittuale come e forse anche più di quella italiana, con una società sempre percorsa da un ribellismo intrinseco travestito spesso da una nostalgica voglia rivoluzionaria. Le maggioranze cambiano e sempre più in fretta, cambiano i governi e il primo ministro, ma fino a quando la presidenza potrà essere il presidio della stabilità?
Q – Quai d’Orsay. E’ lì nel palazzone sul lungo fiume nella riva sinistra il ministero degli esteri, tempio di una diplomazia tra le più professionali e determinate, machiavelliche come lo fu Talleyrand, “armata” e non solo di sottili argomentazioni talvolta boriose e retoriche (è stretto il suo legame con i servizi segreti e le forze armate). Una diplomazia con un importante lato economico dove gli affari esteri si confondono con gli affari tout court, segnata dal passato coloniale tanto quanto dal presente europeo nel quale non vuol restare ingabbiata, con un orgoglio che spesso sovrasta la sua stessa professionalità. Alla feluca non rinuncerà mai.
R – Revolution o révolte? Il dilemma di Albert Camus che lo scrittore risolse in favore della rivolta si ripropone ciclicamente in Francia. “Alla Bastiglia, facciamo la rivoluzione” gridano i manifestanti siano essi i gilet gialli del 2018, gli Insoumise di Mélenchon oppure in questi giorni quelli del Blocchiamo tutto, movimento lanciato online in parte nuovo rispetto ai gilet gialli, ma della stessa matrice. Nel nostro gioco lessicale dovremmo aggiungere una terza R, quella di restauration, ed è questa che più tempo passa più è destinata a prevalere.
S – Soumission. I sottomessi, i musulmani, sono al centro delle tensioni sull’immigrazione e sulla crisi dell’integrazione. Anni fa intervistai per il Corriere della Sera lo scrittore Tahar Ben Jelloun, era un altro periodo di rivolte delle banlieue e di violenze diffuse. Mi disse che il modello francese era fallito e tutto sommato era meglio quello americano, una “integrazione per tribù” così la chiamò. Con quel che succede Oltre Atlantico non c’è nessun modello vincente. Michel Houellebecq conclude il suo romanzo “Sottomissione” del 2015 con un’alleanza tra socialisti e islamici per bloccare Marine Le Pen (primo ministro diventa Bayrou). Oggi nemmeno questo esito paradossale sarebbe più possibile.
T – Triomphe. Sotto l’arco ordinato da Napoleone nel 1806 per celebrare la vittoria di Austerlitz, sono passate ben altre truppe, quelle scombiccherate e violente dell’arcipelago populista. Il vero trionfo per la Francia sarebbe considerarsi normale, niente eccezioni, niente missioni salvifiche, nessuna aspirazione universale, basta incardinare i tre comandamenti dell’89, Liberté, fraternité, egalité, in un cammino deciso verso un’Europa più unita, più competitiva, più democratica, più difesa e sicura. L’unica manifestazione di potenza non può che essere europea e l’aspirazione nazionale vive tutt’uno con quella europea. Mettere in sesto le finanze pubbliche è una tappa di questo cammino.
U – Union sacrée. E’ un concetto francese che descrive la tregua politica interna e la cessazione delle divisioni tra i partiti e le fazioni durante i periodi di crisi nazionale, in particolare durante la Prima Guerra Mondiale. Ce ne sarebbe bisogno, richiede un leader non tanto carismatico, ma autorevole, accettato da tutti come Raymond Poincaré (intitolò così le sue memorie). Chi ne ha visto in giro qualcuno per i boulevard, di questi tempi? Non se ne trovano nemmeno in quella provincia grassa che pure ha dato tante personalità di rilievo. Tuttavia sono gli eventi a creare gli interpreti, non vale solo la regola contraria. Il soldato che nel momento più drammatico grida “avanti” è colui che cambia il corso della battaglia ha scritto Lev Tolstoj che pure aveva creduto nell’onda lunga delle masse e della storia.
Z – Zazie. Nel romanzo di Raymond Queneau, è una ragazzina ribelle, arrivata a Parigi dalla campagna per stare alcuni giorni con lo zio Gabriel, un omone che per mestiere faceva il ballerino travestito. Zazie ha soprattutto voglia di vedere la metropolitana, ma uno sciopero glielo impedisce e lei si perde nei meandri surrealisti della Ville Lumière. Nella settimana del malcontento, con le piazze in subbuglio e il “Blocchiamo tutto” che imperversa, la storia di “Zazie nel metro” può funzionare come metafora di questa Francia inquieta, piena di personaggi improbabili e in fuga per trovare se stessa.