La Cgil denuncia la perdita di potere d’acquisto di stipendi e pensioni e propone di restituire il fiscal drag per alleggerire la pressione fiscale. Ma senza una riforma della contrattazione nazionale e un intervento sui salari lordi, il problema resterà irrisolto
Finalmente anche la Cgil, attraverso le parole del suo segretario generale, mette al centro del dibattito pubblico ciò che da tempo era evidente: la perdita di potere d’acquisto di salari e pensioni non è solo il tema dominante degli ultimi anni, ma sarà il principale problema di politica economica anche nel prossimo futuro. Landini ha proposto di basare la prossima manovra finanziaria sulla restituzione del fiscal drag, cioè su un meccanismo che negli anni recenti ha colpito in pieno i redditi da lavoro e da pensione. L’inflazione del biennio 2022-2023 ha prodotto infatti un duplice effetto: da un lato ha eroso il valore reale di stipendi e pensioni, dall’altro ha fatto salire il peso delle tasse sui redditi fissi attraverso la progressività dell’Irpef, che automaticamente innesca un aumento della pressione fiscale.
In questi anni il governo ha beneficiato di questo effetto: circa 25 miliardi di gettito aggiuntivo sono arrivati grazie al fiscal drag. Solo 17 miliardi sono stati restituiti con la riforma fiscale che ha favorito i lavoratori dipendenti sotto i 35 mila euro di reddito annuo. Il risultato è che una parte consistente di quei prelievi rimane incamerata. Con l’inflazione che riduce il valore reale del debito pubblico e con il fiscal drag che mantiene la pressione fiscale più alta di prima, i conti pubblici sono rimasti in equilibrio, ma a scapito dei redditi da lavoro. Per capire cosa è successo e cosa occorre fare bisogna guardare sia ai salari lordi (quelli fissati dalla contrattazione collettiva) sia ai salari netti del fisco, in particolare dell’irpef. Per compensare l’impatto dell’inflazione non basta agire su uno solo dei due fronti: se aumentano i salari nominali ma il fisco erode tutto, in tasca non resta nulla e si alimenta soltanto inflazione; se, d’altro lato, la contrattazione non riesce a difendere i salari lordi dall’inflazione, il problema resta irrisolto perché il fisco più di tanto non può compensare.
I dati del Rapporto Inps sono eloquenti: ai salari netti più bassi manca ancora un 3% per tornare ai livelli reali del 2019, a quelli alti il 5,5%. Sono numeri che sottostimano la perdita perché, per sua stessa ammissione, l’Inps non tiene conto della maggiore incidenza dell’inflazione sui redditi bassi e del peso delle addizionali locali sui redditi alti. Ancora più grave è il confronto europeo sui salari lordi: mentre nei principali paesi Ue i salari lordi hanno quasi recuperato i livelli pre-pandemia, in Italia restano ben il 7% sotto e, a contratti vigenti, non recupereranno nei prossimi anni. Significa che la contrattazione nazionale non funziona più come dovrebbe.
Che fare? La proposta Cgil sulla restituzione del fiscal drag è giusta ma parziale. In realtà occorrerebbe ridurre il carico fiscale soprattutto sopra i 35 mila euro, perché altrimenti la parte di popolazione che sostiene gran parte del gettito continua a pagare più di prima. È comprensibile che il sindacato non lo dica apertamente, ma è un nodo che prima o poi va sciolto. Il governo, dal canto suo, evita accuratamente di nominare il fiscal drag perché dovrebbe ammettere che i “soliti noti” che guadagnano più di 35mila euro lordi, evocati spesso da Alberto Brambilla, stanno pagando più tasse per finanziare il taglio a favore dei redditi più bassi. Un elettorato che l’esecutivo non considera prioritario, preferendo rivolgersi alle partite Iva con condoni e agevolazioni. Sarebbe assolutamente necessario sterilizzare il fiscal drag per il futuro, indicizzando scaglioni e detrazioni all’inflazione.
Ma l’intervento sul fisco non basta. Il vero problema è che i salari lordi contrattuali non stanno dietro all’inflazione. La priorità deve essere una riforma della contrattazione nazionale. Negli anni in cui l’inflazione era bassa aveva senso tenere sotto controllo il costo del lavoro, ma oggi non è più sostenibile che i contratti si rinnovino in ritardo e che gli aumenti previsti siano sistematicamente inferiori al costo della vita. In molti paesi europei (Francia Germania e Spagna) il salario minimo legale e i rinnovi rapidi del pubblico impiego hanno consentito un recupero più veloce. Ed evidentemente anche la contrattazione nel settore privato ha risposto meglio. In Italia invece si è rimasti fermi: i contratti nazionali, nonostante alcuni rinnovi recenti, hanno perso terreno e la contrattazione aziendale non è certo sufficiente. Eppure il Pil italiano è cresciuto più degli altri paesi in questi anni e anche se la produttività è rimasta pressoché ferma, questo non giustifica un calo dei salari reali.
Purtroppo se sul lato fiscale si può ancora fare qualcosa, e il governo ha promesso un intervento sui redditi sopra i 35mila euro, non vediamo all’orizzonte nessuna iniziativa su salari minimi, contratti del pubblico impiego e riforma della contrattazione collettiva nazionale. La responsabilità di tutto questo va condivisa certo coi sindacati. Ma dopo 30 anni di salari stagnanti e un calo del 7% in valore reale negli ultimi anni, un pensiero andrebbe fatto.