La nuova libertà del voto cattolico

Il “partito unico” è finito, con la Dc, negli anni Novanta. La scelta ora va a destra, a sinistra e verso un centro comunque da rimodellare. Anche se nella società sempre più secolarizzata potrebbe essere un voto ormai residuale

L’intervento di Giorgia Meloni al Meeting di Rimini, alla fine di agosto, ha rilanciato il tema del voto cattolico e dei cattolici in politica. Abbiamo raccolto qualche idea in proposito con questo girotondo.


Non ha senso parlare di “blocchi inscalfibili”. La mobilità elettorale ha raggiunto livelli elevatissimi, come in ogni altra forma di consumo. E che il voto non sia più vissuto come espressione di una identità rigida e costante nel tempo, ma come domanda di identità o anche solo di “vendetta”, ha aspetti negativi, ma anche qualcuno positivo. Quasi ogni voto deve essere conquistato e non lo è mai per sempre. Effettivamente i cattolici italiani sono prevalentemente di “destra”. Ratzinger notò correttamente che non era così in Germania, in Gran Bretagna o negli Stati Uniti, ma quei paesi non hanno avuto la “questione romana”, il clerico-fascismo o un partito comunista (e molto azionista) egemone sulla sinistra. Poi, a fine anni Settanta, Arturo Parisi scoprì un dettaglio importantissimo, senza il quale non si capisce quanto avvenuto negli ultimi decenni. I cattolici più impegnati nelle associazioni ecclesiali tendono a essere più orientati verso il centro-sinistra mentre quelli (non meno identificati ma) meno impegnati tendono a essere più orientati verso il centro-destra, questi essendo molto più numerosi di quelli. La necessità della lotta al Partito comunista e l’esistenza della Democrazia cristiana avevano occultato questa combinazione. La Dc inscatolava culture politiche cattoliche profondamente divergenti. Agli inizi degli anni Novanta la scatola si ruppe.


Negli ultimi cinquant’anni è intervenuta una novità epocale. Al contrario di quanto normalmente si ritiene, la discontinuità prodottasi tra il pontificato montiniano e quelli wojtyliano-ratzingeriano-bergogliano (sotto tanti profili profondamente simili) ha accompagnato e non di rado accelerato la riduzione della influenza dell’essere cattolici sui comportamenti elettorali e sulle preferenze politiche. Inutile negarlo: i dati empirici sono una montagna e peraltro il fenomeno è globale. Se tu riduci anche la Chiesa cattolica a un’accozzaglia di gruppetti o grupponi tra i quali, come in gelateria, ogni fedele può scegliere il gusto preferito, dal cattolicesimo ciascuno prende ciò che vuole ovvero ciò che voleva già prima. Il cattolicesimo da spada che era diventa un attaccatutto, da differenza che era diventa indifferente. Questo fenomeno, sommatosi ad altri, ha portato non alla scomparsa, ma ad una profonda riduzione della influenza della religione sul comportamento elettorale. Al centro-destra, che più ne ha beneficiato, è bastato sventolare simboli per fidelizzare quote crescenti di elettorato “cattolico”. La maggioranza dei “cattolici” non vota il “centro-sinistra” per quello che fa e vota “centro-destra” per quello che dice.


La fase attuale di caccia al voto cattolico vede aumentare approssimazioni e offese gratuite. Il risultato paradossale è che muovendosi in questo modo non si guadagna un voto che è uno, ma ci si limita a fidelizzare chi già sta dalla propria parte (ovvero in maggioranza nel centro-destra). Lo ha fatto la Meloni a Rimini, che senza ritegno ha accusato quelli della “scelta religiosa” (l’Azione Cattolica in primis) di essersi nascosti nelle sagrestie nonostante l’autore (insieme a Paolo VI) della “scelta religiosa”, Vittorio Bachelet, si fosse nascosto così bene da risultare piuttosto indigesto alla Brigate Rosse o il giudice Livatino, classico prodotto della “scelta religiosa”, si fosse nascosto così bene da risultare altrettanto indigesto alla mafia. Lo ha fatto Cuperlo il quale – ineffabile – ha dichiarato che il suo (?) Pd è disposto ad accogliere solo i cattolici à la Bergoglio; come dire, scegliamo quelli che non ci danno fastidio con le prebende in cambio di accondiscendenza. In un clima del genere, a sguazzare sono gli eredi del “tardinismo” e dello spregiudicato ricollocarsi all’ombra del potente di turno.


Per ragioni innanzitutto di lungo periodo, l’esito di questa competizione sarà vinta dalla Meloni con il suo tot andreottismo, non da Cuperlo e neppure da Salvini. Anzi, la Meloni la sta già vincendo, avendo sommato alla destra tradizionalista la Cisl, Cl, Coldiretti e compagnia. Senonché … senonché in una società complessa e ipermobile anche in politica è vero oggi più che mai che è l’offerta a fare la domanda, e non viceversa. E l’offerta politica per risultare vincente in partenza non ha bisogno di grandi numeri, le basta essere azzeccata. In tutto l’Occidente (K. S. Andersen lo ha di recente mostrato per gli Usa sul New York Times) il centro (inteso come l’elettorato mobile che va conquistato per vincere) è tutt’altro che sparito, è solo in via di rimodellamento. In Italia, ad es., esiste una insoddisfazione non aprioristica di fronte alle riforme (per ora solo annunciate) dalla Meloni ed al carattere ancora solo intermittente del suo positivo cambiamento in politica estera. Alla competizione per il rimodellamento del centro ed eventualmente al concretizzarsi di un’offerta politica non solo a parole alternativa al centro-destra, il poco di cattolicesimo sturziano e degasperano rimasto in circolazione potrebbe anche bastare a dare un contributo decisivo. La condizione di questa operazione, ovviamente, risiede nella sfida radicale e se serve nella rottura con l’inutile Schlein-Pd, i suoi cacicchi e i suoi “indipendenti” (arruolati e in lista d’attesa). e, soprattutto, con il pericolosissimo nulla di Conte. “Potrebbe”… che poi abbia il coraggio e la forza di farlo e che la Meloni non riesca prima (legittimamente) a conquistare tutto lo sconfinato spazio politico che le lascia la Schlein è tutto da vedere. Per altro, oltre il post Pd neo feudale che Schlein sta meticolosamente mettendo in piedi, inutilmente estremista e narcisisticamente identitario, esiste già un altro Pd, quello che vince in non poche città del Nord Italia tenendo alla larga la segretaria e che nel Parlamento Europeo non ne segue i dictat. Qualcos’altro è possibile, ma ciò non basta a dire che si verificherà.

Luca Diotallevi


Anche l’ultimo Meeting di Rimini ha fatto notizia, incrociando politica e religione. Stavolta per una circostanza senza precedenti: l’esordio davanti alla variegata platea ciellina della prima donna presidente del Consiglio. Giovane e per di più di destra, Giorgia Meloni ha saputo rivolgersi al mondo cattolico con un’abilità riconosciuta anche dagli avversari, ennesimo degli apprezzamenti – anche internazionali e magari a denti stretti – finora raccolti. Da sinistra si è persino sottolineato come il suo governo abbia ben chiara la necessità del rapporto con i cattolici, grazie a iniziative che restano assenti nei partiti di opposizione. Nei media è così stata agitata di nuovo la quaestio del voto cattolico, vexatissima ma di fatto superata perché in realtà si tratta di un voto residuale, nel contesto di una generale disaffezione dalla politica. Anche se un intellettuale come Marcel Gauchet ha notato, sul Monde del 27 agosto, che al tempo del secondo Trump la politica sta tornando. In scenari dove si moltiplicano imprevisti forse non tanto imprevedibili: conflitti cruenti, con componenti anche religiose, guerre dimenticate, migrazioni forzate, scontri commerciali. L’assassinio di Aldo Moro è stato in Italia il prologo oscuro della fine di un’epoca, e da quasi mezzo secolo il voto cattolico si è via via estenuato, riducendosi al perseguimento, da parte di alcuni gruppi, dei voti necessari a ottenere posti di potere; soprattutto (ma non solo) tra i cattolici democratici, i cui nomi più altisonanti sono stati impietosamente enumerati da Fabrizio d’Esposito sul Fatto Quotidiano del primo settembre. Si può aggiungere che di per sé la stessa denominazione di cattolicesimo democratico stride, come se la democrazia fosse monopolio dei cattolici progressisti. Assodati i meriti (e i demeriti) storici della Democrazia cristiana, il pluralismo dei cattolici in politica, sancito nel 1971 dalla Octogesima adveniens di Papa Montini, è indiscutibile. Il nodo è piuttosto come i politici cattolici possano riuscire a rimanere tali nei diversi schieramenti, sia a sinistra che a destra, risvegliando così l’interesse dei (pochi) correligionari votanti, e magari attirando il suffragio di altri cittadini, al di là dei famosi steccati intorno alle sacrestie. Su questioni che riguardano tutti: dal disagio sociale al fenomeno migratorio, dall’inverno demografico al fine vita, dall’educazione all’eufemistica gestazione per altri (che è uno sfruttamento, di tenore spesso coloniale, di donne povere). Un’indicazione è venuta da Leone XIV, che il 28 agosto ha raccomandato ad alcuni politici cattolici francesi di studiare la dottrina sociale e di “metterla in pratica nell’esercizio delle vostre funzioni e nella stesura delle leggi. I suoi fondamenti sono sostanzialmente in sintonia con la natura umana, la legge naturale che tutti possono riconoscere, anche i non cristiani, persino i non credenti. Non bisogna quindi temere di proporla e di difenderla con convinzione: è una dottrina di salvezza che mira al bene di ogni essere umano”. Certo, un “impegno apertamente cristiano di un responsabile pubblico non è facile, in particolare in certe società occidentali in cui Cristo e la sua chiesa sono emarginati, spesso ignorati, a volte ridicolizzati. Non ignoro neppure le pressioni, le direttive di partito, le ‘colonizzazioni ideologiche’ – per riprendere una felice espressione di Papa Francesco – a cui gli uomini politici sono sottoposti. Devono avere coraggio: il coraggio di dire a volte ‘no, non posso!’, quando è in gioco la verità”. E’ il ritorno a chiare lettere (che ha già fatto alzare qualche sopracciglio) della legge naturale e della dottrina sociale della Chiesa. Sarà interessante vedere come il panamericano Prevost le declinerà e quali potranno essere le ripercussioni sulla politica (ed eventualmente sul voto dei cattolici).

Giovanni Maria Vian

Ogni tanto nel nostro dibattito pubblico si rianima la questione del voto cattolico. Tutti sanno che, finito il partito della Democrazia cristiana, la maggioranza dei cattolici italiani vota per l’area del cosiddetto centrodestra, che è stato così anche negli anni di Papa Francesco, considerato dai leader di centrosinistra il loro principale riferimento mondiale, e che comunque perdura una certa irrilevanza politica della chiesa e dei cattolici italiani. Ma tant’è. E’ bastata un’ovazione ricevuta dalla presidente del Consiglio Meloni al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini per scatenare di nuovo le tifoserie: da una parte chi dice che finalmente i cattolici hanno trovato la loro degna rappresentante, dall’altra chi prende indispettito le distanze dagli applausi ciellini, preferendo i cattolici “alla Bergoglio”. Ma siamo proprio sicuri che questa ripartizione dei cattolici in blocchi politici sia davvero rilevante? Siamo sicuri che un cattolico debba stare a destra o a sinistra? Io non lo sono affatto. Tendo piuttosto a pensare che questa logica dei blocchi sia del tutto inadeguata sia rispetto alla comprensione che i cattolici italiani hanno di sé stessi, sia, soprattutto, rispetto alle sfide che oggi abbiamo di fronte. La pressoché totale secolarizzazione delle nostre società ha cambiato radicalmente il contesto nel quale la Chiesa e i cattolici sono chiamati a operare. Sul tavolo abbiamo la rivoluzione digitale, le intelligenze artificiali, le tecnologie genetiche. Ci sono poi le guerre, quella in Ucraina soprattutto, e il nuovo scenario geopolitico che rischiano addirittura di distruggere l’identità europea e della cultura occidentale. Non mi sembra proprio il caso di trastullarci sul voto dei cattolici. Direi piuttosto che oggi, forti della loro grande tradizione, i cattolici dovrebbero sentirsi chiamati a guardare tutte queste “cose nuove”, ben oltre i limiti del cattolicesimo politico. E’ soprattutto un impegno culturale quello che viene loro richiesto. In ultimo ne va della salvaguardia della dignità e della libertà dell’uomo.


Come vado dicendo da tanto tempo, la caratteristica più importante della modernità secolare, quella che non possiamo in alcun modo rinnegare, non è di aver promosso il materialismo, l’ateismo o il nichilismo, bensì di aver aperto uno spazio in cui le persone possono muoversi tra tante opzioni, incluse le opzioni religiose, per le quali è giusto e legittimo battersi, senza essere costretti da nessuno a prendere partito per una di esse. Se ci pensiamo bene, è questo il principale lascito della modernità, sul quale si sono incardinate la cultura e le istituzioni liberaldemocratiche, e grazie al quale si è aperto anche per la chiesa uno spazio immenso per puntare tutto sull’unica cosa che conta per davvero e della quale, oggi più che mai, il mondo ha urgente bisogno: Dio e la croce di Gesù Cristo “Redentore dell’uomo”. A maggior ragione se pensiamo ai cambiamenti epocali cui facevo cenno sopra. E’ l’umano che sta cambiando, che sta andando “oltre” (e contro) sé stesso. Altro che politica o inconsistenza politica dei cattolici. Tra breve la stessa politica non sarà più quella che conosciamo, proprio per via di questi cambiamenti, per fronteggiare i quali, però, i cattolici hanno una regola antica: guardare il mondo con gli occhi di Gesù Cristo e vivere di conseguenza, sentendosi parte dell’unica chiesa. Ciò avrà sicuramente anche conseguenze politiche, ma è molto di più che politica. Quanto infine a coloro che sentiranno l’impegno politico come propria vocazione, valgano le parole dette da Papa Leone XIV pochi giorni fa: “Non c’è da una parte l’uomo politico e dall’altra il cristiano. Ma c’è l’uomo politico che sotto lo sguardo di Dio e della sua coscienza, vive cristianamente i propri doveri e le proprie responsabilità”. La considero un’indicazione molto impegnativa, ma pragmatica, non moralista né utopistica, che proprio per questo potrebbe essere utile a tutti.

Sergio Belardinelli

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