Ogni settembre gli insegnanti tornano tra i banchi con l’illusione di ordine, entusiasmo e agenda nuova, ma basta una riunione di dipartimento per far riaffiorare la selva di carte, acronimi e paure che rende la scuola un luogo sognato d’estate e temuto d’inverno
Più della retorica strappalacrime di qualche articolo, più delle gride ministeriali su telefoni ed esami, penso che il senso del ritorno a scuola vada cercato in quei ritagli che, appiccicati alle pareti o alle ante di schedari, adornano gli uffici dirigenziali e le sale professori negli istituti d’Italia. Dei tanti che ho visto, uno in particolare mi sembra tradire una convinzione inconscia su ciò che è stato e ciò che avverrà: vi appare un gufo ritratto col tocco accademico in due pose adiacenti; in una è impettito e saccente, nell’altra ha le piume arruffate e lo sguardo stordito, come se fosse stato travolto da un terribile flagello. La didascalia, caso mai non si capisse, specifica trattarsi di quel che accade agli insegnanti all’inizio e alla fine dell’anno scolastico. Quel duplice gufo rivela una verità che va oltre il banale umorismo da “prima della cura” e “dopo la cura”. Testimonia il contrasto insanabile fra le aspettative che gli insegnanti maturano durante l’estate e la dura realtà con cui si scontrano nel corso dei nove mesi successivi; prima di tornare, con la sospensione delle lezioni, a nutrire nuove speranze riguardo all’inizio del nuovo anno entrante. D’estate gli insegnanti abitano una scuola ipotetica, che si incarna nelle immacolate agende settimanali inviate come strenna dalle case editrici oppure accuratamente scelte, magari per diciotto euro, sugli scaffali specializzati delle cartolerie.
I più coscienziosi, e io fra quelli, al primo settembre compilano il frontespizio con i dati anagrafici e professionali, come se l’agenda rischiasse di venire smarrita (non accade mai: è la rocca a cui viviamo aggrappati) e come se non fosse più rapido comprarsene un’altra o riciclare quella di qualche anno prima; i più apprensivi, e io fra quelli, temperano accuratamente la matita con cui iniziano a segnare i nomi degli alunni nell’apposito elenco rigato, il calendario delle riunioni, i colleghi del consiglio di classe e l’orario provvisorio. Mai con la penna: è come se si temesse di rovinare l’anno scolastico, sciupandolo prima ancora di iniziare, perché l’orario provvisorio cambia sempre, i colleghi spariscono e riappaiono nel valzer delle supplenze, le riunioni vengono spostate perché si scopre sempre che si sovrappongono a qualcosa. Immancabilmente, scommetterei verso ottobre, arriva il momento in cui la calligrafia si deturpa, gli orari vengono mandati direttamente a memoria e, anziché alla gomma, si ricorre a uno sbrego per sostituire i dati desueti. Come il ritratto di Dorian Gray, l’agenda pasticciata o trascurata diventa specchio segreto dell’anima in affanno degli insegnanti, che esteriormente cercano di mantenere le apparenze scandite dal calendario scolastico votato con entusiasmo durante il collegio docenti del primo settembre, salvo scoprirsi incapaci di rincorrerlo man mano che le settimane passano. C’è un momento specifico in cui la discrepanza fra la scuola immaginata e quella realizzata si manifesta in tutto il suo orrore. Accade ben prima dell’inizio delle lezioni – spiace per gli alunni, ma nella tortuosa psicologia degli insegnanti sono poco più che comparse – e, segnatamente, durante le riunioni dei dipartimenti che devono stilare i programmi per l’anno a venire, disciplina per disciplina. C’è di solito un’anima santa che si fa carico di preparare, spero con l’aiuto di ChatGPT, una disamina delle conoscenze, delle abilità e delle conoscenze, degli obiettivi minimi e dei progetti integrativi, dell’aderenza al piano triennale dell’offerta formativa, del computo delle prove di verifica e delle tabelle per la valutazione; il tutto scritto in quella neolingua, lo scuolese, che accomuna la legislazione, le circolari e quegli arditi oroscopi che vanno sotto il nome di linee guida per la didattica.
Fino a che qualcuno, a riunione pressoché finita, non alza la mano. E dice, quel qualcuno, che bisogna correggere uno o l’altro termine, che la tal formulazione è ambigua, che urge sciorinare capziosissime casistiche; a suffragio, menziona storie leggendarie di ricorsi clamorosi e genitori imbizzarriti, alunni promossi nonostante avessero soltanto insufficienze, commi sottintesi e sentenze della Cassazione, immancabilmente concludendo con le parole: “Dobbiamo tutelarci”. È lì che la scuola smette di essere ciò che gli insegnanti hanno vagheggiato durante l’estate, ossia un luogo in cui insegnare qualcosa a qualcuno tenendo stretta un’agenda ordinatissima, e diventa una selva in cui addentrarsi col batticuore fra acronimi negromanteschi e moduli bizantini, astratti ideali e direttive contradittorie, regolamenti capillari e l’immancabile impegno che ci si è dimenticati di segnare in agenda, tanto che viene voglia di strapparla e lanciarla dalla finestra, pazienza per i diciotto euro. Il gufo dell’innocente ritaglio non lo sa, ma la sua vignetta incarna le due scuole in cui gli insegnanti italiani lavorano scissi: quella che sognano da giugno a settembre, quando ne sentono la mancanza, e quella di cui hanno paura da settembre a giugno.