Disumano, feroce, rumenta più totale, liquame puro. E poi l’indignazione extra perché sono donna. Ecco cos’è successo dopo aver scritto l’articolo su The Voice of Hind Rajab
Stronza. Diciamo così per un’immediata comprensione senza ricorrere a insulti da codice penale. Lo sono diventata – assieme al mio partner in crime, il direttore del Foglio Claudio Cerasa – dopo un articolo che raccontava il film “The Voice of Hind Rajab”, presentato alla Mostra di Venezia e accolto alla proiezione ufficiale con un applauso durato 23 minuti. Vale a dire tre minuti più di quanto dura un episodio di “South Park”, la serie satirica di Trey Parker & Matt Stone dove lo scarsamente dotato Donald Trump va a letto con Satana. Un articolo su Vulture fa un paragone con altri titoli presentati: otto minuti per “The Hand of Dante” di Julian Schnabel (pessimo) e nove minuti e mezzo per “Jay Kelly” di Noah Baumbach con George Clooney (molto brutto).
Gli applausi in Sala Grande non sono sempre affidabili. Il pubblico vede a distanza ravvicinata le celebrità, tira fuori lo smartphone e certo non vuol mostrarsi così sgarbato da bocciare un film alla presenza del regista. Della regista in questo caso, che portava con sé la foto formato manifesto di Hind Rajab – la bambina palestinese morta perché i soccorsi non sono arrivati in tempo. Il responsabile della Mezzaluna Rossa chiedeva un percorso sicuro per l’ambulanza, già aveva perso troppi medici e infermieri. Non è colpa sua, ma pareva “Chi l’ha visto”.
Dire che la bambina, se fosse sopravvissuta e cresciuta, avrebbe dovuto coprire capelli e abito come l’operatrice che sta al telefono con lei e cerca di farle coraggio è stato considerato colpa grave. Anzi gravissima. Da punire con la cancellazione dall’albo dei giornalisti (a cui non sono iscritta, esercito abusivamente la professione – ora sapete anche questo), con il premio “Cinismo nel giornalismo” (assegnato con insindacabile giudizio da Riccardo Noury, direttore della comunicazione e portavoce italiano di Amnesty), con l’uso della pagina per foderare il secchiello dell’umido (ignota, su X: se non mettete i nomi ma quelle sigle sceme, non potete neanche godervi la riflessa popolarità).
Si sono risvegliati anche gli istinti pro Pal dei miei ex colleghi alla Radio Svizzera – uno parla di articolo “disumano, volgare, feroce, crudele”, e neanche si degna di nominarmi, casomai lo venissi a sapere: ancora son convinti che internet custodisca senza diffondere, magari la disumanità potrebbe contagiarlo. Altri parlano di mostruosità, pubblicando la mia foto. Qualcuno spiega che nel mio caso essere donna è un aggravante. Alessandro Robecchi avanza l’ipotesi che il mio articolo vada “al di là dell’umano”, “sfregio per una bambina innocente assassinata dalle Ss dell’Idf”.
Andrea Scanzi – confesso di avergli stroncato a sangue almeno un tentativo letterario – scrive: “Siamo oltre il vomito, lo schifo, la rumenta più totale” (siccome “rumenta” sta per spazzatura, il concetto di “spazzatura più totale” ha il suo consueto uso creativo della lingua). Aggiunge che il Foglio ha più pagine che lettori, ma a leggere gli insulti a me indirizzati non si direbbe. Bobo Craxi parla di “cinismo fin troppo tollerato”.
Un signor Rossi parla di “liquame puro, scritto poi da una donna”. Altri insistono sul dettaglio, anche il femminismo non è di questo internet. Cercano la mia fotografia, lombrosianamente vorrebbero trovare almeno un segno del diavolo. Ai tempi della caccia alle streghe, proverebbero ad affogarmi o bruciarmi per sostenere la loro tesi. Non è mica finita. Uno, con l’hashtag #FreeAssange” scrive sotto la mia fotografia “Se questa è una donna”. Chi dice che sarò condannata dalla storia per complicità in genocidio. Chi “si vergogna per me e chi mi conosce”. Chi tenta lo svolazzo poetico: “Se l’infamia si misurasse in anni luce, Mariarosa Mancuso sarebbe l’intero universo”. Chi scrive “Suca” e chi mi prende a dimostrazione della “Banalità del male”.