Minacciata da Putin, abbandonata da Trump e surclassata da Xi, l’Europa rischia l’irrilevanza sullo scenario mondiale. Ma dal riarmo ai nuovi settori industriali che corrono, dal ritrovato rapporto con Londra alla resilienza ai dazi americani arrivano segni di reazione. Un’indagine
L’arazzo di Bayeux è tornato in Inghilterra dopo 900 anni, simbolo di una storica riconciliazione. Un’opera medievale che celebra la conquista normanna dell’Inghilterra è ora un pegno di rinnovata amicizia tra Parigi e Londra. Non solo: vuol diventare l’emblema di una Europa che, medicate ferite antiche e recenti, riscopre una missione dimenticata. Poche cose come l’arte hanno sempre assunto un tale significato. E il tappeto decorativo del quale parliamo era nato già carico di messaggi. L’11 luglio scorso è stato annunciato in pompa magna che quel drappo lungo 70 metri sarà esposto al British Museum dal settembre 2026 al giugno 2027, perché di prestito si tratta non di dono. Di nuovo amici, sì, francesi e inglesi, ma con giudizio. “Ci sono voluti più anni per tessere l’arazzo che per la Brexit”, ha detto Emmanuel Macron durante la sua visita di stato. Rappresenta la vittoria di Guglielmo il Conquistatore sul re inglese Harold Godwison, a Hastings nel 1066 e racconta anche gli intrighi che l’hanno preceduta o la doppiezza del nobile sassone Harold diventato re. Soldati a cavallo in cotta di maglia, colti nel furore dello scontro tra teste mozzate e cadaveri di nemici e compagni; ma anche accordi politici e scene di vita a corte. Sono in totale 58 scene realizzate con quattro punti e filo in 10 colori naturali, rappresentano 623 persone, più di 700 animali, 37 edifici e 41 navi e anche più di 90 genitali maschili (c’è chi li ha contati). Tradizione vuole che sia stato commissionato da Oddone, vescovo di Bayeux nato in Normandia e fratellastro di Guglielmo. Realizzato a Canterbury da nobildonne anglosassoni per decorare la cattedrale di Bayeux, cittadina vicina a Rouan, doveva ricordare sì la vittoria normanna, ma soprattutto la riconciliazione tra i nuovi padroni della Britannia e i loro sudditi. Una speranza e una promessa che ha impiegato secoli prima di diventare realtà.
Anche la Francia è stata contesa e divisa, come la Gran Bretagna o come l’Italia. Celti, romani, germani, vichinghi danesi, quei normanni che presero lingua e costumi francesi per poi dominare l’Inghilterra, tenere i piedi di qua e di là dalla Manica, conquistare la Sicilia (Oddone nominato conte di Kent, morì a Palermo in attesa di imbarcarsi per la prima crociata in Palestina). Eleonora d’Aquitania, erede della dinastia Poitiers, nel 1152 sposò Enrico II e divenne regina consorte d’Inghilterra dopo essere stata anche regina di Francia. Da allora sono trascorsi trecento anni di conflitti anglo-francesi fino alla Guerra dei cent’anni conclusa nel 1453 con l’estinzione dell’antica dinastia dei Plantageneti divisi tra York e Lancaster. Ne nacquero due stati orgogliosi e imperialisti l’un contro l’altro armato. Come non ricordare la Gloriosa Rivoluzione invisa anche ai più liberali e progressisti della intellighenzia inglese e poi Napoleone che per la monarchia britannica era un flagello di Dio. Ebbene, l’arazzo di Bayeux, che l’Unesco ha inserito nel Registro della memoria del mondo, s’accompagna a una nuova Entente cordiale. Nata nel 1904 per spartirsi il Nord Africa dopo il collasso dell’Impero Ottomano, l’amichevole intesa tra Londra e Parigi divenne un patto contro la nuova potenza imperiale che minacciava la pace europea: la Prussia, diventata nel 1871 la Germania del Secondo Reich.
Oggi il pericolo viene dalla Russia di Zar Vlad e l’accordo anglo-francese non è solo uno scambio di simboli, ma di informazioni preziose, di codici, di potenza nucleare. Quando parliamo d’Europa ora più che mai non dobbiamo riferirci all’area dell’euro e nemmeno ai 27 paesi che compongono l’Unione perché il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda è tornato nel consesso delle nazioni europee, ma c’è anche la Norvegia per non dimenticare la Svizzera.
Europa potenza armata
Il 10 luglio, un giorno prima dell’annuncio sull’arazzo di Bayeux, sempre a Londra il primo ministro britannico Keir Starmer e il presidente francese Emmanuel Macron hanno raggiunto un accordo definito dal premier laburista “un momento storico per il mondo” sull’uso delle bombe atomiche: 515 testate (290 francesi e e 225 britanniche) in grado di colpire a 8 mila chilometri (Mosca ne dista 5 mila). “Siamo le due nazioni nucleari in Europa – ha detto Starmer nella conferenza stampa – e abbiamo concordato di fare un incredibile passo avanti in relazione a come coordiniamo le nostre capacità a sostegno dell’Europa e della Nato”. I deterrenti nucleari nazionali restano indipendenti, ma verranno d’ora in poi coordinati. La difesa europea congiunta verrà garantita anche sul piano convenzionale, con la costruzione assieme di missili anti-nave di nuova generazione e tutta una serie di armi avanzate, incluse quelle basate sull’IA. E soprattutto con l’espansione fino a 50 mila uomini della forza di reazione rapida franco-britannica, che viene rifocalizzata sulla difesa dell’Europa e resa pronta a combattere. “Dobbiamo avviare discussioni sia con i britannici che con i francesi per capire se la condivisione nucleare, o almeno la sicurezza nucleare offerta dal Regno Unito e dalla Francia, possa essere estesa anche a noi”, ha detto il cancelliere tedesco Friedrich Merz. Macron l’aveva già proposto, ma i precedenti governi tedeschi non avevano risposto né sì né no.
L’esercito comune europeo forse sarà un sogno, la difesa comune è un progetto che ha cominciato a muovere le sue gambe. E l’impegno a mettere insieme il potenziale nucleare è il pilastro fondamentale. Peccato che nel suo discorso all’annuale meeting di Comunione e liberazione a Rimini Draghi non ne abbia parlato. Forse dubita che il piano possa andare avanti per ragioni politiche. Quanto è solido Starmer, quanto dura Macron assediato da destra e da sinistra, incapace di affrontare la grave crisi delle finanze, e Merz con la sua precaria maggioranza? I tre maggiori paesi europei sono stretti da una tenaglia nazional-populista di destra e di sinistra ed è legittimo dubitare che i loro governi possano durare abbastanza per portare avanti il grande progetto. Ma forse Draghi si sbaglia. Secondo il generale de Gaulle il nucleare doveva servire a proteggere la Francia, ma fin dal suo discorso del 2020 agli allievi della scuola di guerra, Macron ha detto che la sicurezza ha ormai una dimensione europea, anzi riguarda l’intero Occidente nel quale sono comprese non solo l’America, ma anche l’Oceania. Vladimir Putin ha le sue quinte colonne, tuttavia il neo-imperialismo russo fa paura alle opinioni pubbliche occidentali e a gran parte di quelle dell’Europa orientale che hanno sperimentato il tallone sovietico, a cominciare dagli stessi tedeschi dell’est. Una nuova unità europea si sviluppa come risposta a un pericolo armato, quella vecchia cementava la pace ritrovata. Che differenza, ma allo spirito dei tempi non si comanda.
Il boom dell’industria bellica, intanto, è impressionante. Le fabbriche di armi in Europa si stanno espandendo a un passo tre volte maggiore che in tempo di pace: ben sette milioni di metri quadrati coperti da nuovi insediamenti industriali, un riarmo su scala storica. Il Financial Times ha fatto i conti con una analisi di mille satelliti radar che hanno “scovato” 150 impianti che fanno capo a 37 imprese europee. Si tratta di fabbriche di munizioni o di missili (fondamentali per difendere l’Ucraina), impianti che costruiscono carri armati o aerei da combattimento. Le foto mostrano scavatrici al lavoro, strade in costruzione, nuovi edifici. Un terzo dei siti individuati mostrava chiari segni di espansione. La rapidità è anch’essa impressionante. Le stesse aree coinvolte nel cambiamento nel periodo 2020-2021 coprivano 790 mila metri quadrati, sono arrivate a 2,8 milioni di metri quadrati. La Francia, la Romania e la Germania mostrano la maggior espansione di impianti e fabbriche. Una grande densità si nota in particolare in Baviera. Tra i siti in grande sviluppo si nota quello che riguarda il progetto congiunto tra il gigante tedesco della difesa Rheinmetall e il gruppo ungherese della difesa N7 Holding che ha un vasto impianto di munizioni ed esplosivi a Várpalota, nell’Ungheria occidentale. Dunque, anche Viktor Orbán tiene i piedi in due staffe, per la serie dai nemici mi guardo io, dagli amici mi guardi Iddio.
Secondo l’Ukraine Support Tracker dell’Istituto per l’economia mondiale di Kiel, gli stati europei avrebbero acquistato almeno 35,1 miliardi di euro in nuovi armamenti attraverso contratti industriali dall’inizio dell’invasione russa: ovvero, 4,4 miliardi di euro in più rispetto agli Usa. Mentre lo studio satellitare del Financial Times dimostra come il riarmo dell’Europa non sia solo a parole: dall’inizio della guerra in Ucraina, le industrie di Difesa e produzione di armi del Vecchio Continente si sono espanse a velocità triplicata. Si spende in modo massiccio nell’ammodernamento delle infrastrutture così come in nuovi armamenti. Ciò ha trasformato la difesa in una nuova locomotiva economica e si tratta non solo di grandi imprese già note, ma di start-up alimentate da una nuova ondata di venture capitalist, sottolinea il Financial Times.
Il complesso militar-industriale
L’industria europea degli armamenti non è piccola né arretrata, è soprattutto frammentata e divisa per linee nazionali. Nella classifica dei principali gruppi è in testa Bae Systems (ex British aerospace) al sesto posto mondiale dopo le Big Five americane (Lockheed Martin, RTX, Northrop, Boeing, General Dynamics) con un fatturato che è circa la metà della Lockheed. Poi arrivano tre aziende cinesi. Leonardo, tredicesima al mondo, guida il pattuglione della Ue, seguita da Airbus (franco-tedesca-spagnola), Thales (francese), Rheinmetall (tedesca), Dassault (francese), Naval e Safran (anch’esse francesi), Saab (svedese), KNDS (olandese) e Fincantieri. L’Italia ha una posizione chiave anche perché Leonardo ha stretto joint venture e collaborazioni che arrivano fino agli Stati Uniti dove possiede la Drs (tecnologie dell’informazione). Per formare un sistema continentale, ha ricordato Draghi, occorre favorire “le sinergie industriali concentrando gli sviluppi su piattaforme militari comuni (aerei, navi, mezzi terrestri, satelliti)”. I paesi europei restano ancora troppo dipendenti dagli Stati Uniti per importanti aspetti della loro capacità militare: l’artiglieria antiaerea, i razzi, la copertura aerea, l’informazione. Anche se dal 2022 hanno investito molto per colmare il divario.
Il 52 per cento di questi sistemi di combattimento oggi è fornito da imprese europee, solo il 34 per cento da quelle americane che si sono concentrate in veicoli, missili terra-aria a lungo raggio, intelligence, sorveglianza, mezzi aerei e missili teleguidati. Gli inglesi parlano persino di escludere gli americani da Five eyes il sistema di sorveglianza occidentale che comprende anche Australia, Canada e Nuova Zelanda, ma le ritorsioni hanno una consistenza puramente emotiva. Al contrario bisogna garantire l’accesso europeo su una base di parità; nonostante Trump, gli Usa sono “alleati che sbagliano”. Draghi ha ricordato che tra il 2020 e il 2024 gli Stati Uniti hanno fornito due terzi dei sistemi di difesa importati dagli stati europei aderenti alla Nato (l’Italia ha una quota del 30 per cento). Droni, ma anche intelligenza artificiale, elaborazione dei dati, guerra elettronica, spazio e satelliti: i gruppi del Vecchio Continente ci sono, ma inseguono.
La strada è lunga e accidentata. Esistono più sistemi satellitari, innanzitutto quelli di Eutelsat (che ha acquisito OneWeb nel 2022) e di Ses che sta acquistando Intelsat. Sono per lo più basati su satelliti geostazionari, che sono affidabili ma viaggiano a 36 mila chilometri e rispetto a quelli a bassa orbita (400 chilometri) come Starlink, hanno una latenza maggiore: il segnale arriva dopo un terzo di secondo che in combattimento può essere una eternità. L’Ue ha lanciato il programma Iris 2 (Iris al quadrato) che sarà operativa solo verso il 2030. Tuttavia può contare su diverse imprese competitive: oltre Eutelsat e Ses, Airbus Defence & Space, Thales Alenia Space, Telespazio, Hispasat e Hisdesat. Pur disponendo delle tecnologie necessarie, come i Samp T franco-italiani, non inferiori ai Patriot, l’Europa non ha un’adeguata copertura da attacchi missilistici. La competizione fratricida per il cacciabombardiere di sesta generazione non ha molto senso logico. Oggi l’F35 (americano anche se industrie europee ne producono circa un terzo) è l’aereo più efficace, superiore al francese Rafale e all’Eurofigher (anglo-italo-tedesco). La Russia ha sempre puntato molto sulla guerra sottomarina dove un tempo primeggiava la Germania, l’Europa ha eccellenze come i Vanguard britannici armati di missili balistici e i francesi Le Triomphant, ma solo qiattro sommergibili nucleari contro gli 11 russi. Fincantieri dopo la lunga cooperazione con la Germania, è impegnata nella costruzione del quarto sottomarino di nuova generazione. La vera specialità italiana (condivisa con la Francia) è nelle fregate multimissione, protagoniste dei combattimenti in superficie. E’ un esempio di cooperazione virtuosa come nei missili, nella produzione di chips con Stm, nell’elettronica dove Leonardo è nel triangolo con la britannica Bae e la francese Thales. Il gruppo italiano ha stretto un accordo con Rheinmetall per nuovi veicoli corazzati destinati all’esercito italiano. La Germania è tornata a produrre i Panzer, le macchina da guerra che l’avevano resa famosa e sembravano ormai inutili. La difesa sarà per molti versi il nuovo driver dell’economia europea e la locomotiva tedesca potrà finire di sputacchiare fumo sul suo binario cieco. Ma non ci sono solo le armi.
Resilienza o risveglio?
Quando sento la parola resilienza mi succede come a Woody Allen quando sente la Cavalcata delle Walkirie, eppure non so come chiamare quello che sta succedendo in Italia, in Europa e sul mercato mondiale di fronte al bombardamento a tappeto dei dazi trumpiani. Per usare una metafora meno triviale si può ricordare la scena del film “L’ora più buia”, quando Winston Churchill nel 1940, in una Londra sconvolta dalle bombe tedesche, scende nella metropolitana e chiede ai passeggeri, tutta gente comune, proletariato urbano e piccolissima borghesia, che cosa fare e stringe il patto della resistenza in questo caso più che resilienza, fino alla controffensiva e alla vittoria finale. Non ci sono Churchill in giro per il mondo e Donald Trump nonostante le sue pose non può essere paragonato a Hitler (forse con quel mascellone proteso e quella retorica provocatoria più a Mussolini se non fosse per la chioma arancione). Battute a parte, a sei mesi dal Liberation Day, la catastrofe non s’è ancora abbattuta sulla economia internazionale; quel che si può intravedere è una brutta frenata, non una crisi.
Non va certo sottovaluta la portata storica della svolta protezionistica americana: hanno ragione gli studiosi che la paragonano a quella dei primi anni Trenta e della legge del 1934 che ha accompagnato, forse spinto, certo peggiorato quella che è stata chiamata la Grande Depressione. Allora la catena produttiva e del valore era in gran parte nazionale, ma non ha tenuto nessuno al riparo. Non dimentichiamo mai l’aneddoto sul classico borghese del primo Novecento che misurava il tempo con un orologio svizzero, beveva tè indiano, indossava scarpe di vitello italiano, giacche di lana del Kashmir confezionate a Londra e così via. Tanto meno si può pensare a un capitalismo, a una industria manifatturiera, a una innovazione tecnologica in un paese solo con tutti gli altri appecorati a pagare e soffrire. La globalizzazione è stata intaccata dalla svolta nazional-populista dell’ultimo decennio, ma non è stata spezzata, non ancora.
Gli Usa sono una economia per la maggior parte chiusa. Il suo export è un decimo del suo prodotto lordo, quello europeo si avvicina alla metà e supera anche quello cinese. Al contrario di quel che sostengono i Maga, la politica della porta aperta ha consentito agli Usa di coprire ancora un quarto del prodotto lordo mondiale. Il vero vantaggio competitivo è la sua potenza. Allora fa bene Trump ad alzare il ponte levatoio per proteggerla? Nient’affatto, perché il disavanzo americano con l’estero è dovuto a due fattori strutturali: la minore competitività nell’industria tradizionale che fornisce ancor oggi la maggior parte dei prodotti scambiati, se escludiamo il petrolio e le principali materie prime; e lo squilibrio tra risparmio e investimenti, in altri termini gli Usa vivono al di sopra dei loro mezzi e debbono importare denaro e capitali dall’estero per sostenere la loro economia interna. Il privilegio del dollaro aiuta, ma anch’esso è fondato sulla potenza militare che ha reso la bandiera a stelle e strisce il simbolo di un porto sicuro dove collocare l’oro e le riserve mondiali (nei forzieri della Federal Reserve) e Wall Street il luogo migliore dove investire i propri quattrini. Dal 1945 in poi è sempre stato così. Persino la crisi petrolifera degli anni Settanta si è risolta con le ingenti risorse accumulate dai paesi produttori investite in biglietti verdi (i petrodollari). L’11 settembre che ha distrutto le Twin Towers non ha affondato Wall Street. Dopo il crac del 2008 la Borsa è ripartita alla grande grazie alla globalizzazione che ora si vuole affossare. Tutto può cambiare proprio con l’attacco al sistema del libero scambio che ha accompagnato e consentito quello che si è trasformato in uno scambio ineguale a favore degli Stati Uniti. Ma adesso spostiamoci sul Vecchio Continente che Trump e i suoi cortigiani non conoscono e non capiscono. Il rapporto Draghi ha illustrato che l’Europa è rimasta indietro e può restare schiacciata tra un’America nazional-populista e una Cina neo imperialista. Dopo aver versato calde lacrime è ora di asciugarsi gli occhi, aguzzare la vista e osservare da vicino quel che abbiamo, come possiamo usarlo al meglio e come dotarci di quel che non abbiamo.
I campioni europei
Guardando ai bilanci delle grandi imprese quotate in Borsa nel secondo trimestre dell’anno, gli analisti hanno visto una sorprendente “resilienza” con guadagni e progetti futuri che tengono bene, meglio di quel che si temeva, nonostante le tariffe americane. E’ presto per dichiarare che l’Europa l’ha scampata bella, specialmente perché i dazi avranno una ricaduta anche sugli Stati Uniti restringendo gli sbocchi per le esportazioni europee. Certo, si possono cercare altri sbocchi, ma tra il dire e il fare ci sono di mezzo almeno tre oceani. Si parla tanto dell’India, spesso a sproposito, a parte il fatto che Trump l’ha gettata nelle braccia della Cina (in quelle russe c’era già da decenni), non è certo un mercato ricco tale da sostituire quello a stelle e strisce. Pur con tutte le cautele possibili, l’Europa oggi è diventata interessante anche per i grandi investitori internazionali, a cominciare da quelli americani. Beata Manthey, che guida le strategie di investimento azionario della Citibank in Europa, parla al Financial Times di un buon rimbalzo il prossimo anno. “Settimana dopo settimana, stiamo ricevendo notizie sempre più positive. La spinta in basso dei dazi ha come contrappeso lo stimolo che viene per esempio dai progetti di spesa della Germania”. Gli indici delle borse europee sono risaliti ai livelli precedenti lo scorso aprile, prima del Liberation Day che ormai sempre più sembra un pesce d’aprile, anche se un pesce velenoso. I maggiori punti deboli riguardano quelli che erano stati i punti forti fino alla guerra dei dazi, cioè in particolare settori come il lusso e l’automobile, mentre un grande ombra s’allunga sulla farmaceutica dove le imprese del Vecchio Continente sono competitive, soprattutto se comprendiamo la Svizzera. La velocità europea è stata inferiore a quella americana, tuttavia il mix economico è allo stesso livello se non migliore. Per capirlo diamo un’occhiata a come sono cambiate le maggiori imprese dagli anni Ottanta in poi.
Nel 1985 il vertice del mercato europeo era affollato da giganti petroliferi, banche britanniche e ingegneria tedesca. Al primo posto c’era Royal Dutch Petroleum, seguita da Bt Group e Bp. La lista delle top ten sembrava un club anglosassone, dominato dalla finanza e dall’energia. La Germania industriale era presente con Siemens, la Svizzera assente, e le Big Pharma ancora invisibili. Negli anni Novanta si intravede il primo segnale di cambio: Nestlé entra in classifica, ma il colpo di scena arriva nel 2000: è l’anno del boom tecnologico. Nokia e Deutsche Telekom guidano, seguite da Vodafone, Orange, Ericsson. La vecchia Europa sembrava pronta a sfidare la Silicon Valley, ma nel 2005, l’energia torna protagonista con Bp e Total, mentre le banche come Hsbc, Ubs, Natwest, Banco Santander vivono il canto del cigno prima della crisi del 2008. Intanto, Novartis e Roche iniziano a scalare posizioni. E’ l’inizio della rivoluzione silenziosa del farmaceutico europeo.
Nel 2015, la fotografia è del tutto diversa: cinque aziende sulle prime dieci sono del settore sanitario. La olandese Philips è passata da tempo dalle lampadine alle macchine per gli ospedali. E’ l’effetto combinato di invecchiamento demografico, aumento strutturale della spesa pubblica in salute e leadership globale nel farmaco biologico. La Svizzera è diventata il cuore pulsante di questa trasformazione. Non solo Roche e Novartis: anche la stessa Nestlé, che pur operando nel largo consumo, ha costruito la sua crescita sulla nutrizione medica e la prevedibilità dei flussi. Le crescenti tensioni commerciali tra Stati Uniti ed Europa potrebbero colpire proprio il pharma, un settore percepito come ad alto margine e strategicamente sensibile. Se Washington dovesse davvero imporre dazi sulle importazioni di farmaci europei, l’impatto sarebbe sistemico. E l’Europa perderebbe proprio il suo bastione più solido. Nel 2022, l’olandese Asml diventa la più grande per peso nello Stoxx 600 (l’indice che comprende le prime seicento imprese europee quotate). Un evento storico per un’Europa che per anni ha consumato innovazione, senza produrla.
Asml è l’unica tech company che non solo compete, ma domina. Dal 2023 è il più grande fornitore per l’industria dei semiconduttori e l’unico al mondo nelle macchine per fotolitografia usate per produrre i chip più avanzati. Le nuove tensioni geopolitiche pesano e il titolo è tornato sotto la sua media decennale, la sua capitalizzazione è scesa a 277 miliardi di euro, ma l’impronta lasciata nel posizionamento strategico resta intatta. Nel 2025, la prima azienda europea per capitalizzazione è la danese Novo Nordisk (farmaceutica specializzata in cura del diabete) con il record di 1.200 miliardi di euro, poi Sap, il gruppo tedesco di software gestionale, con 289 miliardi di euro seguito da Asml, mentre Hermès ha superato anche Lvmh.
Nel lusso che oggi ansima per i dazi e perché deve ancora interiorizzare una svolta nei comportanti dei consumatori, l’Europa non ha paragoni e non è solo un segno di ricchezza: il primato della moda è anche una conseguenza della politica di libero scambio, della più estesa globalizzazione europea e di una expertise manifatturiera che certo gli Stati Uniti non hanno e non possiede nemmeno la Cina nella fascia alta della catena produttiva. Ho un chiaro ricordo di un evento di Ferragamo a Pechino al quale ho partecipato. Era invitato tutto lo star system cinese, ma il pubblico non faceva ressa per fotografare loro o le bellissime modelle, ma un anziano ciabattino italiano che fabbricava scarpe da uomo, tutte a mano. “Vede noi non sappiamo farle – mi ha detto una giornalista cinese mentre stupito chiedevo il perché – E non sapremo farle per generazioni, forse mai, perché voi avete una storia che a noi non appartiene”. E allora? “Allora noi abbiamo fatto abbastanza soldi per comprare aziende italiane che le sanno fare, ma non hanno abbastanza capitali”. Lezione di economia in poche battute. Eppure l’Italia non è così statica come viene descritta, tanto meno l’Europa. Ciò riguarda anche le borse.
Nel Dax, l’indice tedesco, domina la Sap (software gestionale), seguita da Siemens, Deutsche Telekom, Allianz, Rheinmetall; arrancano, ma non mollano Bmw, Mercedes, Volkswagen. La Germania industriale esiste ancora, tuttavia ormai il fulcro dello sviluppo è la digitalizzazione, non i beni strumentali. Una transizione difficile destinata a suscitare conflitti economici, sociali, politici. Il francese Cac 40 è diventato altamente appetito dagli investitori con ai vertici Hermès, Lvmh, L’Oréal. La TotalEnergies, è scesa al quarto posto. Le grandi firme dominano le esportazioni francesi, attirano capitali globali e offrono un vantaggio competitivo. In Italia UniCredit ha superato Intesa Sanpaolo nel Ftse Mib, conquistando il titolo di società italiana con la più alta capitalizzazione di mercato superando i 100 miliardi di euro: le banche sono ancora il cuore pulsante della finanza. Enel, Eni, Ferrari, Stellantis hanno rappresentato il cuore industriale. La regina del made in Italy, Prada, quotata a Hong Kong, vale circa 14 miliardi, Hermès 200. Il nanismo italiano non è stato superato. La manifattura resta ampia, ma soffre, la crescita non si è digitalizzata.
L’accordo sui dazi è stato un pasticcio, ancor più che una resa. La Commissione europea non ha avuto il coraggio di far valere le sue buone ragioni e i suoi punti di forza, quelli economici, quelli politici, quelli militari. Non solo il bazooka dei contro-dazi, ma più in generale. Davvero l’America potrà contrastare l’Iran senza le basi nell’Europa meridionale, davvero potrà impedire che l’espansionismo russo minacci gli stessi interessi americani senza i siti che i paesi europei garantiscono agli aerei e alle truppe a stelle e strisce (si pensi in Italia a Sigonella e ad Aviano o ai depositi di testate nucleari)? Molti sottolineano che si è dato troppo spazio a Trump e alle sue sparate. Oliver Zipse il gran capo della Bmw crede che sia stato esagerato lo stesso impatto dei dazi: quel che più importa è la qualità di prodotti che l’industria europea può offrire e che non ha paragoni né con la Cina né con la stessa manifattura americana, beni che non possono essere rimpiazzati. Tuttavia, Pechino ha ottenuto l’esenzione per i minerali strategici, l’Europa non ha saputo difendere i suoi settori strategici. Anziché piangere sul latte versato bisogna rimboccarsi le maniche e rilanciare, con politiche che accrescano e sostengono la competitività europea. A questo punto, dobbiamo entrare nel territorio instabile della politica.
L’Europa a cerchi concentrici
Draghi a Rimini ha ribadito le sue proposte: “I governi devono definire su quali settori impostare la politica industriale. Devono rimuovere le barriere non necessarie e rivedere la struttura dei permessi nel campo dell’energia. Devono mettersi d’accordo su come finanziare i giganteschi investimenti necessari in futuro, stimati in circa 1,2 trilioni di euro all’anno. E devono disegnare una politica commerciale adatta a un mondo che sta abbandonando le regole multilaterali. In breve, devono ritrovare unità di azione, e non dovranno farlo quando le circostanze saranno divenute insostenibili, ma ora, quando abbiamo ancora il potere di disegnare il nostro futuro”. Che cosa è fattibile e a quali condizioni?
Sulla difesa si può già decidere facendo ricorso alla cooperazione rafforzata. È’ il meccanismo che consente a un gruppo ristretto di stati membri di procedere in un ambito specifico, senza dover attendere il consenso degli altri, superando così l’unanimità e la tagliola del potere di veto. Prevista dall’articolo 20 del Trattato sull’Unione europea e dagli articoli 326 a 334 del Trattato sul funzionamento dell’Unione, la cooperazione rafforzata riunisce almeno nove stati per attuare un’iniziativa comune in un ambito di competenza dell’Ue (difesa, giustizia, commerci, risorse strategiche, unione doganale, concorrenza). È’ autorizzata dal Consiglio a maggioranza qualificata e dal Parlamento europeo. Dimentichiamo l’idea irrealizzabile di cambiare i trattati e mettiamo a frutto quel che già esiste. In generale, occorre accettare che più che mai in questa fase storica gli Stati Uniti d’Europa sono irrealizzabili. L’Europa di Ventotene resta un’utopia. Quella che emerge è un’Europa a più velocità o meglio a cerchi concentrici con un nucleo centrale composto da Francia, Germania, Polonia, Spagna, sostenuto dall’esterno dalla Gran Bretagna. Ad esso si uniscono quasi per default l’Olanda e il Belgio. Quanto all’Italia il governo attuale deve decidere se ci sta o no, finora ha oscillato tra dentro e fuori riesumando la vecchia “dottrina dei due forni” di andreottiana memoria. L’ultima dimostrazione è il no a inviare truppe in Ucaina sia pure per garantire una tregua (di accordi di pace non si può certo parlare). Anche l’Austria pressata dai nazional-populisti è in bilico, ma alla fine s’aggancerà alla Germania.
Questo primo cerchio dominato dalla sicurezza militare non coincide con il cerchio dell’euro, ma anche il cerchio del nord, con i paesi baltici, quelli scandinavi e la Finlandia, comprende un mix monetario che non è d’impaccio. Il terzo livello riguarda l’est, i Balcani, l’Ungheria, Cechia e la Slovacchia, la Romania, la Bulgaria, fino alla Grecia. Qui l’aggregazione sarà più lenta e difficile, ma il potere d’attrazione del primo cerchio sarà più forte di quello russo. E il malcontento sociale, e il nazional-populismo, e l’instabilità di sistemi politici europei diversi e confusi, o di schieramenti nazionali che non coincidono con le tradizionali famiglie politiche del Parlamento europeo? Problemi seri, sviluppi che possono diventare pericolosi, in alcuni casi anche drammatici. Tuttavia la mia conclusione è che sono epifenomeni, convulsioni gravi ma non serie di fronte allo spettro che davvero s’aggira per un’Europa minacciata da Putin, abbandonata da Trump e surclassata da Xi Jinping: lo spettro dell’irrilevanza. Io spero che quel fantasma sempre evocato sia un incubo che svanisce all’alba. Wishful thinking? Se sbaglio mi correggerete. Sempre se ci sarà tempo.