Perché non ce l’abbiamo messa tutta per ritrovarlo? L’assenza di un padre

Saldare il vuoto è pericoloso e occorre prima compiere un lungo tragitto. Il protagonista insiste viaggiando per luoghi intimi, rileggendo i diari paterni, intervistando parenti e colleghi di quell’uomo di cui il lettore non saprà mai il nome

Se, come sostiene Manuel Vilas in Ordesa, il più grande mistero per un uomo è la vita di quell’altro uomo che l’ha portato al mondo, quando il padre scompare all’improvviso dall’esistenza di un figlio che ha appena compiuto dodici anni, l’enigma si fa brutale e immenso, ma si presta anche a essere oggetto di libera speculazione da parte di chi resta; per arrabbiato o sgomento che sia. Nello spazio per forza finzionale generato dalla scomparsa di un padre geniale quanto indecifrabile, si svolge “La vita immaginata” di Andrew Porter (traduzione di Ada Arduini, Feltrinelli), un meticoloso e convincente esperimento tra memoria e fantasia; la cronaca della corsa recalcitrante a sostituire qualcosa di solido all’assenza di una spiegazione, una parola, di un qualsiasi segnale precedente la chiusura definitiva.

Saldare il vuoto è pericoloso e occorre prima compiere un lungo tragitto che sembrerà una rimozione: il protagonista, lo scrittore Steven Mills ha aspettato quarant’anni e una propria crisi famigliare, prima di tornare in quella California un tempo tanto liberal e insicura, dove tenterà di afferrare un dato certo, per dare forma a qualcosa d’importante e che passò inosservato fino a quando era tardi; insiste viaggiando per luoghi intimi ma non più familiari, rileggendo i diari paterni, intervistando parenti e invecchiati colleghi di quell’uomo di cui il lettore non saprà mai il nome. Tornano alla memoria le feste sregolate a bordo piscina, corpi giovani agitati dalla sera all’alba, tra marijuana e sangria e approcci notturni spiati dalla camera da letto del preadolescente; ritornano proprio perché incongrue – per quanto si cerchi il centro, l’educazione avviene tramite gli estremi – visioni precoci di film di Herzog, Resnais e Antonioni (prima di andarsene per sempre, il padre porta il figlio a celebrare la bellezza di Monica Vitti nell’Avventura). Ricompone lentamente i dettagli di un evento – la mancata conferma della cattedra di Inglese all’università – che spinge un padre, già predisposto alla paranoia, ad abolire i confini della ragione, accusando i colleghi di vendetta e gelosia, facendo infine sospettare che causa della mancata conferma fosse uno scandalo sessuale, trappola costruita da lui stesso a sé stesso.

La trama ricreata dal figlio vacilla come l’ennesima fantasia e produce altra assenza: è questa, ormai solidificata e gravitazionale, a distorcere il tempo, dando alla ricerca della soluzione per il mistero insito nell’esistenza del padre, l’esito corretto: il fallimento. Ma la forza trascinante – se non provocata dall’esperienza del romanziere, di grande capacità d’immedesimazione – della scrittura di Porter vale più della mancanza di causalità: mostrandoci il ricordo mentre questo si crea attingendo al passato, espone la complessa tirannia sentimentale del tempo. Dopo la frase della madre: “Tuo padre se n’è andato” arrivano le domande, immediate e perduranti; una si rivela però solo alla fine del libro, a decenni di distanza: “Perché non ce l’avevamo messa tutta per trovarlo?”. Da qui emerge la natura tragica del rapporto tra figlio e padre. Un figlio non si sente autorizzato a trovare il padre. Ha bisogno (o se ne convince) che il mistero rimanga, così da provocare conseguenze diverse da ogni altra più visibile: qualcosa dice che ciò che si vede e comprende non varrà quanto ciò che non arriva agli occhi. Esperimento estremo di disgregazione, La vita immaginata descrive i nostri paradisi perduti non per come li vorremmo ma per come sono: i soli, scrive Proust nel Tempo ritrovato, a essere veri. L’ultima cosa che la madre, prima di traslocare, strappa dalla parete di quello che ero lo studio del marito, è un foglio con la citazione dalla Recherche.

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