Il libro di Ivano Dionigi smonta i luoghi comuni sulla scuola. E non chiamiamola “dell’obbligo” come se si potesse comandare il desiderio di insegnare e imparare
Settembre, è tempo di tornare sui banchi e le cattedre di quelle scuole che da anni diciamo essere inefficienti, cialtrone, brutte, sporche, inutili. E se le cose non stessero così? E’ la tesi di Ivano Dionigi, latinista ed ex rettore di Bologna, in “Magister. La scuola la fanno i maestri, non i ministri” (Laterza, 2025). Tesi scomoda perché rovescia un luogo comune molto radicato. Però è un fatto che i nostri studenti brillano all’estero (Erasmus, concorsi vari) grazie a una cultura generale più solida dei coetanei tedeschi, inglesi, americani. Da noi, al contrario del nord Europa, la lezione non si appiattisce sul qui e ora dell’opinione (“che ne pensi?”, “mi piace/non mi piace”) ma educa alla profondità del tempo. I professori italiani collocano gli argomenti dentro una tradizione e genealogia di cui gli allievi possono appropriarsi ripercorrendola. C’entra parecchio l’impronta cattolica della nostra scuola, sopravvissuta per fortuna anche negli istituti laici, e Dionigi, che ha studiato dai preti, lo sa. Altro luogo comune dal quale il suo libro ci aiuta a prendere le distanze è quello per cui la scuola dovrebbe scegliere tra un’opzione autoritaria e una democratica. Falso dilemma, perché la scuola si regge sulla capacità del maestro di far amare ciò che insegna e far cantare i testi a voce spiegata, prima di discuterli e criticarli.
Se e quando scatta l’eros pedagogico, e “le parole coagulano l’essere delle cose, il loro logos”, allora non ci sono più due fronti: da una parte il professore, dall’altra lo studente. Chi insegna non è davanti all’allievo, come un precettore, e nemmeno si mette al suo fianco, quasi fosse un amico, piuttosto: “Scrive nell’anima di chi ascolta”. Dionigi cita volentieri Platone ma non ha nessuna simpatia per Giovanni Gentile, che pure gli è vicino: “Il vero maestro” diceva il filosofo assassinato “è interno allo stesso animo dello scolaro, anzi è lo stesso scolaro nel dinamismo del suo sviluppo”. La lezione è autentica se accende la medesima scintilla nelle due menti. E’ una delle rare forme di comunità ancora possibili, e il senso della scuola è tutto qui. Il resto – la trafila delle riforme (e le riforme delle riforme) – serve a guastare ciò che funziona ottimamente da solo. Se abbiamo la netta sensazione che c’è del marcio nella scuola, la colpa è delle direttive ministeriali, le circolari, i moduli, le riunioni compulsive, i comitati di genitori, le metodologie didattiche, nient’altro che sabbia con cui una burokràzia di stampo sovietico si diverte a inceppare gli ingranaggi di un’istituzione fondamentalmente sana. Certo, a volte va male comunque. Ma c’è poco da legiferare, perché l’eros pedagogico è come ogni altro amore: se c’è, bene; se non c’è, è inutile insistere. Credo siamo tutti d’accordo che chiamarla “dell’obbligo” non è un’espressione molto giusta per la scuola. Come se si potesse comandare il desiderio di insegnare e imparare. Carmelo Bene, che non faceva sconti, chiedeva: dove siamo, in Siberia?