Gian Piero Gasperini e il bello

L’allenatore della Roma e la bellezza del calcio che nasce dall’armonia collettiva, lontana dall’individualismo narcisista. In questo equilibrio anche un fuoriclasse come Paulo Dybala trova il suo senso, brillando non da solo, ma dentro la verità della squadra

Troppo spesso bellezza e verità non sono facce della stessa medaglia. Ogni uomo cerca la bellezza, ma ormai non la trova se non in se stesso, nella propria immagine. È brutto dirlo ma è così. Siamo nell’era dell’individualismo assoluto, e la bellezza tradisce la verità, e viceversa, perché belli non siamo, perché veri non siamo. In un contesto collettivo questo concetto si esaspera finendo per fare danni. Quando parliamo di squadra, la bellezza individuale non dovrebbe esistere, abdicando in favore di un’immagine complessiva dove il singolo si esprime nei dettagli, e i dettagli, uniti come puntini, compongono il quadro, il quadro della squadra. In estate durante il calciomercato tutti sono belli, ogni singolo giocatore, vecchio o nuovo si ammanta di un fascino superiore alla sua realtà. Poi cominciano le partite e anche i belli sfioriscono, finendo per aggrinzirsi e diventare brutti all’improvviso.

La bellezza comincia a riflettersi su quelle squadre meno narcisiste di altre, dove l’allenatore ha fatto un lavoro quasi platonico, dove non si insegue il bello in forma puramente esibizionistica, ma creativa, provocando l’incastro giusto tra bellezza e verità. Insomma l’inseguimento di un gioco bello ed efficace, in cui a bellezza corrisponda una bellezza ancora superiore, in un moltiplicarsi di fatti belli che finiscono per esaltare il concetto di squadra. È quello che è successo alla Roma, dove Gasperini ha velocemente tradotto ai giocatori la sua vocazione al bello. Lasciando perdere le questioni puramente parrocchiali legate a chiacchiere su calciatori più o meno graditi all’allenatore (lamentatio non petita, accusatio manifesta), per Gasperini ormai vera e propria strategia di pressione su tutto l’ambiente (come per Conte, del resto), quello che notiamo nella Roma è un’assoluta mancanza di individualismo, se non nel tocco finale, quasi la firma dell’artista.

E questo tocco è dato da un calciatore fine a se stesso per definizione, Paulo Dybala. L’argentino si conclude da solo, come quasi tutti i fuoriclasse. La sua esclusività non porta a nulla se inserita nel caos, anzi lo complica, determinando un piccolo vortice dentro il caos. Ma quando uno fatto così, viene applicato ad una squadra priva del velo dell’ambiguità, piena di quelle certezze che, tradotte in breve, portano alla verità, permette a quella squadra di mostrare tutti i lati del proprio diamante. La bellezza risplende in quei lati e la durezza del diamante ne certifica la sostanza del collettivo. Tutte queste parole, messe in fila, formano una collana pronta a spezzarsi al primo intaglio provocato da un avversario che nel frattempo è cresciuto. Perché anche questo è il calcio, una fila di ipotesi e parole, che prima o poi qualcuno riuscirà a smentire.

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