Per la morte dello stilista lunedì sarà lutto cittadino in una città che non ama i funerali. Vite parallele con Valentino, che pure partì dal nord e conquistò l’America (passando però da Roma)
L’estate terribile di Milano si è aperta col crollo dell’insegna sul grattacielo Generali e si chiude con la dipartita di Giorgio Armani. Nel frattempo, pezzetti forse casuali ma storie che se ne vanno o passano di mano, assai dolcemente o no: Mediobanca, il Leoncavallo, la chiusura definitiva della discoteca Plastic, l’epopea del grattacielo come simbolo di sviluppo lombardo ormai svanita. Anche Armani era un grande italiano ma soprattutto un grande milanese. Se uno volesse scrivere il romanzo milanese del Dopoguerra il protagonista sarebbe infatti lui. Anche se il ragazzo veniva da Piacenza, quella zona in cui i confini tra Emilia e Lombardia si fan sinuosi, e aveva cuore nell’Oltrepò, terra sacra allo stilismo: da Voghera viene infatti anche Valentino, suo grande simmetrico in fuga come lui dalla provincia. Valentino infatti scese a Roma e lì ebbe gran fortuna, mentre a Milano regnava e soprattutto lavorava Armani poi con tutta una geografia e simbologia, con la casa in via Borgonuovo e il negozio in via Sant’Andrea. E più che incontrarlo a dei party era più facile e di soddisfazione coglierlo mentre sistemava le vetrine ancora fino a qualche tempo fa, nelle sue boutique, lui che ormai miliardario e leggendario nasceva pur sempre vetrinista alla Rinascente, altro luogo mitico e mistico della milanesità; in tempi in cui ancora i vetrinisti non si chiamavano display designer. E pescarlo a sistemare dei capetti in vetrina era rito apotropaico come calpestare le palle del toro in Galleria. Armani era infatti Milano, “Bocconi”, proferiva il calabrese del “Drive In” negli anni Ottanta, e poi appunto “Armani”: gloria anche turistica, modo di essere, come la mania del controllo – ghe pensi mì – che pure gli era nota, e il gran laurà, attività sacra sotto il Duomo.
Tanto più che gli abiti da sera, si mise a disegnarli solo dopo un bel po’. Lui era piuttosto quello dell’uomo e (novità) della donna che lavora, di giorno, e cosa c’è di più milanese? Uomo e donna nei loro “greige”, un non colore come la cappa che avvolge tra polveri sottili la capitalina lombarda. Dall’altra parte, lontanissimo, giù giù, c’era appunto il rosso Valentino. Da sera. Però Armani con quel greige poteva dire ciò che voleva: uno stile unico e inconfondibile e “consistent” come dicono in America e naturalmente a Milano patria del Milanenglish. Armani, come gli hanno riconosciuto ieri su Instagram Giancarlo Giammetti e Valentino Garavani, formidabile coppia, aveva uno stile unico: frase che a volte non vuol dire nulla, ma nel suo caso significa che in un abito, una casa, un Armani Dolci, o Armani Hotel, o Armani Fiori, perfino l’Armani Cafè celebre anche purtroppo per il barman-femminicida Impagnatiello (altro romanzo milanese da scrivere, del genere Bret Easton Ellis), quando ci stavi, capivi subito che eri nel mondo del “Signor Armani”. Architetture scarne e un minimalismo padano con finiture extralusso, inconfondibili a nord e a sud. “Il Signor Armani”, milanese, era poi molto diverso dal “Signor Valentino”, romano, la moda essendo l’unico settore in Italia in cui dare del dottore risulta peraltro ridicolo (un po’ perché nel settore nessuno lo è, un po’ perché essendo settore internazionale il “mister” prevale sempre sul “dott.” molto local, da parcheggiatore).
A differenza di Valentino e Giammetti, Armani non utilizzava Instagram, e il suo stile di vita era più milanesemente ritirato. Non difettandogli comunque le case e le armate di terra e di mare, come il Codecasa 65 metri tutto nero “Main”, soprannome della mamma (la mamma, nella morfologia della fiaba degli stilisti, è sempre centrale; mentre la barca di Valentino, il TM Blue One, deriva dalle iniziali Teresa e Mauro, mamma e pure papà). Altra differenza: queste case, Milano e Forte dei Marmi e Pantelleria e tante altre, oltre che essere molto “signor Armani” non erano affidate ad architetti, star e no che fossero. Faceva tutto lui. Valentino e Giammetti si sono legati a grandi maestranze e soprattutto al supremo foderatore e affrescatore delle classi alte italiane, Renzo Mongiardino, culmine di quell’ispirazione che, circolare, arrivava nelle meglio magioni a partire da quelle Agnelli, e di lì tornava a Roma, a palazzo Mignanelli dove oggi sorge la fondazione Valentino-Giammetti. Loro vestivano le dame, e quelle case vestivano loro, da lì divani e quadri e tappezzerie e tavole seminali per una storia del gusto transatlantico tra Park Avenue e l’Appia Antica, e tutto un “moodboard” tra Conca, Capri, Casa Bianca ecc. senza mai però passare da Milano.
Invece il signor Armani col suo greige era rimasto più padano, e la villeggiatura e le barche che pure c’erano, eccome se c’erano, relegate a una dimensione privata che non veniva utilizzata come comunicazione della casa. Ma anche per lui il capitolo America naturalmente era stato fondamentale, meno istituzionale rispetto a Valentino e Giammetti, la cui fortuna erano state anche le seconde nozze di Jackie Kennedy, con relativo guardaroba, mentre per Armani paradossalmente la Padania si fondeva meglio con una certa balnearità, la West Coast, i costumi di “American Gigolò” con Richard Gere inquadrato da Paul Schrader in controluce in interni losangelini, e i “power suit” di “Miami Vice”, e però sembravano tutti alla fine dei manager di Montenapoleone (anche film poi dei Vanzina). Insomma sempre Milano.
La città sul cui aeroporto troneggia ancora l’aquila dell’Emporio Armani. Rispetto al classico cursus honorum stilistico, e sempre rispetto al Valentino “romano”, il milanese Armani non aveva avuto (anzi aveva avuto interrotta) quella classica formazione a due, col creativo sensibile e a fianco il manager-cofondatore magari duro ma che porta a casa i fatturati e tiene i conti (e i nervi del consorte) in ordine: vedi anche Saint Laurent-Pierre Bergé. Non che non ci fosse stato l’incontro fatale: proprio a Forte dei Marmi, alla Capannina, con il “local” viareggino Sergio Galeotti, manager e compagno, negli anni Sessanta si conobbero e misero su l’impresa. Mentre come si sa Valentino e Giammetti si incontrarono a via Veneto (anche se non si è mai capito in quale bar, uno dice da Doney, l’altro al Café de Paris). Tutto questo per noi appassionati si vede nel documentario “Valentino The Last Emperor” che il duo non senza ripensamenti permise a un giornalista di chiara fama che se ne andò dal gruppo Condé Nast per darsi al cinema, sign of the times, in anticipo sui tempi. Ma anche lì, differenze: Armani non è mai diventato un film così intimo e con momenti poi “igonigi” con una coppia gay già celebre che però diventava definitivamente mainstream (con battute poi ripetute dagli appassionati: nei culmini drammatici, Valentino chiede a Giammetti: come sono andato? Pausa. “Troppo abbronzato”. O per una centrale sfilata con vera sabbia: “manca solo il fucile e il secchiello”. A proposito, povera Mirella Petteni, anche lei andata via in quest’estate triste, anche lei centrale in quel giro di bellezza transatlantica, da Bergamo al palazzo agnelliano di via XXIV Maggio, modella protagonista di una celebre campagna Valentino con la sabbia).
Ma insomma: Sergio Galeotti prima del fatale incontro faceva il commesso alla Larusmiani, ed era, come sempre serve essere, spiritoso e ironico quanto “il signor Armani” era tosto e serioso; al Forte comprarono la prima delle loro fantasmagoriche case greige. Curioso e struggente che Armani come ultimo atto (in senso proprio notarile) di una vita anche di gran romanzo immobiliare abbia voluto rilevare, una settimana fa, proprio la Capannina. Galeotti come si sa morì malamente, di Aids, quarant’anni fa, nel 1985, mentre Milano celebrava i suoi yuppies e certe malattie era meglio non nominarle. Chissà, se fossero rimasti insieme, a quali altri trionfi sarebbe arrivata l’azienda (e il cuore). Adesso, funerali milanesi di fine estate, lunedì, privati, per il signor Armani. E lutto cittadino in una città, Milano, che non ama tanto questi riti, che a Milano non son mai frequentatissimi. La capitale dei funerali, lo sanno tutti, è piuttosto Roma, dove le esequie sono un gran momento sociale e mondano e di pr. Milano, invece, non vede l’ora di rimettersi al lavoro. Tutti. Vetrinisti compresi.