Gli abiti per Meloni, ma soprattutto quelli per centinaia di attori e artisti. Così è riuscito a entrare comunque nel cuore di tutti
E’ giusto, e non avrebbe potuto essere altrimenti, che sulla scomparsa di Giorgio Armani abbia scritto un messaggio di cordoglio addolorato l’altra Giorgia nazionale, la premier Meloni, così come è stato giusto che non l’abbia fatto per molti altri designer e imprenditori della moda che – l’anagrafica della moda italiana è sempre più implacabile – sono morti in questi ultimi tre anni di governo. Che lui l’avesse vestita più volte, in velluto blu notte anche per la sua prima Prima della Scala, due anni fa, c’entra ovviamente zero. La differenza fra un designer di moda anche famoso e un simbolo al quale tributare tutti gli onori riservati a una gloria nazionale risiede infatti nella sua capacità di incidere sulla società, di accompagnarne e favorirne lo sviluppo, superando i limiti, pur interessanti, dell’abbigliamento e del vestire. E “Il signor Armani” – come lo chiamavano tutti i suoi moltissimi dipendenti, quasi diecimila nel suo impero che conta cinquecento negozi e un fatturato superiore ai 2 miliardi di euro, e come lo chiamavano anche molti di noi che si occupano di moda e costume da tanti anni per rispetto e affetto, all’antica, e nonostante lui insistesse per il “tu” –, il “Signor Armani”, si diceva, ha cambiato con discrezione e polso fermissimo il mondo.
Non solo il mondo occidentale, ben oltre la creazione pur rivoluzionaria della giacca destrutturata, delle morbidezze eleganti alle quali aveva portato l’universo maschile, fino ad allora ingessato fra imbottiture e tagli conformanti, e la protezione raffinata con la quale aveva accompagnato le donne nel loro cammino, ben lungi dall’essere concluso, verso la parità salariale e di carriera. “Il signor Armani si è spento serenamente, circondato dai suoi cari. Infaticabile, ha lavorato fino agli ultimi giorni, dedicandosi all’azienda, alle collezioni, ai diversi e sempre nuovi progetti in essere e in divenire”, hanno scritto nel comunicato ufficiale i suoi dipendenti poche ore fa, nelle stesse ore nelle quali, sempre sul Foglio, e ancora ignari, benché dolorosamente allertati che fossimo giunti alla fine e che il “problema di salute” che l’aveva aggredito lo scorso giugno avesse avuto ragione dei suoi novantuno anni e di una fragilità che ci appariva ogni volta più evidente e più commovente, avevamo decrittato il suo ultimo progetto, l’Archivio Armani. Aveva voluto definirlo “un’eredità viva”, cioè un passaggio di testimone che adesso diventa effettivo e che era stato previsto da tempo e sempre ribadito, a ogni intervista: alla guida dell’azienda rimarranno i nipoti e l’uomo, il designer, l’amico di cui portava al dito il dono di un anello prezioso, Leo Dell’Orco. “Negli anni”, sottolinea ancora il comunicato, “Giorgio Armani ha creato una visione che dalla moda si è estesa a ogni aspetto del vivere, anticipando i tempi con straordinaria lucidità e concretezza. Lo ha guidato un’inesauribile curiosità, l’attenzione per il presente e le persone. In questo percorso ha creato un dialogo aperto con il pubblico, diventando una figura amata e rispettata per la capacità di comunicare con tutti. Sempre attento alle esigenze della comunità, si è impegnato su molti fronti, soprattutto verso la sua amata Milano”.
In queste ore, non c’è solo il sindaco Giuseppe Sala che ha dichiarato il lutto cittadino. Ci sono migliaia di persone che, nonostante non abbiano mai acquistato un abito di Armani e magari non ricordino che abbia reso elegante perfino Richard Gere in “American gigolo” e centinaia di attori, dicono che sia come se fosse venuto a mancare un loro parente, e ti scrivono messaggi privati su quanto siano sinceramente addolorati, tentando di condividere la pena. Essere una gloria nazionale è anche questo, e cioè far parte della vita di tutti: sedersi in panchina quando gioca la tua squadra di basket senza mostrare troppo rammarico per una partita persa, rispondere al saluto di tutti uscendo di casa, entrare nel proprio caffè e mettersi alla cassa, all’occorrenza, per la meraviglia estatica dei fortunati che, per tutta la vita e soprattutto ora, racconteranno di quella volta che il signor Armani aveva dato un’occhiata al loro cappuccino per essere certo che fosse perfetto. Per noi ragazzi adolescenti negli anni Ottanta, il signor Armani era il cinquantenne belloccio che scendeva dai suoi uffici in via Durini per osservare il movimento e l’andirivieni di ragazzi nella prima sede dell’Emporio, aperta nella stessa via, prima “seconda linea” della storia della moda italiana, dove si vendevano i famosi jeans con l’aquilotto che volevamo tutti. Aveva fondato la sua impresa cinque anni prima, nel 1975, ma sapeva già di dover diversificare e di doverlo fare con il pubblico affluente del futuro, cioè i giovanissimi della Milano da bere che oggi hanno sessant’anni e non dimenticheranno mai il senso di libertà e l’energia di quegli anni. “La Giorgio Armani è una azienda con cinquant’anni di storia, cresciuta con emozione e con pazienza”: non crediamo che il signor Armani abbia potuto approvare anche queste righe, ma è come se lo avesse fatto, perché la pazienza, la tenacia, la presenza costante sono state parti integranti del suo cammino di assoluta autonomia, rifiutando tutte le offerte di acquisizione che adesso, c’è da scommetterci, torneranno a proporsi. Quando, nell’agosto del 1985, morì il suo primo compagno di vita e di impresa, l’architetto Sergio Galeotti, l’uomo per il quale Armani ha firmato poche settimane fa il suo ultimo acquisto, la Capannina del Forte, furono in molti a dirsi convinti che il suo astro avrebbe concluso la propria parabola entro breve. Lo sapeva anche lui; si applicò sulla gestione, lui medico mancato, e divenne il miglior manager che la moda italiana abbia conosciuto, insieme con pochissimi altri. Essere riuscito dove troppi si dicevano convinti che avrebbe fallito era per lui un continuo motivo di orgoglio. “Giorgio Armani ha sempre fatto dell’indipendenza, di pensiero e azione, il proprio segno distintivo. L’azienda è il riflesso, oggi e sempre, di questo sentire. La famiglia e i dipendenti porteranno avanti il Gruppo nel rispetto e nella continuità di questi valori”: fra poche settimane, le celebrazioni per il cinquantenario dell’azienda, all’Accademia di Brera, saranno il momento della prima verifica di queste parole. La camera ardente sarà allestita a partire da sabato 6 settembre e sarà visitabile fino a domenica 7 settembre, dalle ore 9 alle ore 18, a Milano, in via Bergognone 59, presso l’Armani/Teatro. “Per espressa volontà del signor Armani, i funerali si svolgeranno in forma privata”: non ci sarà il Duomo come per Gianni Versace, sebbene l’arcivescovo l’avrebbe certamente concesso, ci sarà la sua famiglia, come voleva lui. Negli ultimi anni i suoi “cari”, le persone “vicine”, erano diventate fondamentali. “Non trascurate gli affetti. Tutti dobbiamo avere qualcuno che ci aspetta a casa, fosse pure il gatto”. Ce lo disse in occasione della laurea honoris causa in Global Business Management che l’Università Cattolica gli conferì due anni fa al Teatro Municipale di Piacenza. Capimmo tutti in quel momento che il tempo del signor Armani non sarebbe stato infinito.