La partita al Monumental di Buenos Aires contro il Venezuela dovrebbe essere l’ultima partita di Lionel Messi con la Nazionale in uno stadio argentino
C’è un momento, nella vita degli eroi, in cui la leggenda si ripiega su sé stessa. È il tempo dell’epilogo, il tempo in cui i riflettori non accecano più, ma illuminano con dolcezza malinconica. Per Lionel Messi, questo tempo è adesso. Dopo aver fatto danzare il mondo intero, dopo le notti di trionfo con la maglia blaugrana e le lacrime in biancoceleste, si chiude il cerchio della sua storia con l’Argentina. L’ultimo tango.
Per anni, Messi ha vissuto con un marchio di incompiutezza. “Fenomeno con il Barça, fantasma con la Selección”, dicevano. Ogni finale persa – Copa América 2007, Mondiale 2014, Copa América 2015 e 2016 – era una ferita aperta. Gli argentini, popolo abituato a divinizzare i calciatori come santi laici, non gli perdonavano di non aver vinto con la maglia che conta di più.
Era l’ombra di Diego Maradona a pesargli addosso: troppo grande, troppo ingombrante, troppo politico, troppo popolare. Diego aveva alzato la Coppa del mondo “da solo”, Messi sembrava invece sempre parte di un meccanismo perfetto che crollava appena usciva dal Camp Nou.
Eppure il calcio, come la letteratura sudamericana, ama i colpi di scena tardivi, i finali che ribaltano il destino. Nel 2021, in Brasile, Messi ha sollevato finalmente la Copa América; (ripetendosi nel 2024 negli Stati Uniti). Non in casa, ma nello stadio dei rivali di sempre: il Maracanã. Poi, il capolavoro: il Mondiale in Qatar, 2022. Un torneo epico, vinto con la classe, la rabbia e la fragilità di un uomo che aveva deciso di non arrendersi.
Se Maradona aveva scritto il romanzo dell’eroe tragico, Messi ha firmato quello dell’eroe paziente, capace di aspettare l’ultimo atto per imporsi come vincente.
Ora, con l’Mls a fare da palcoscenico finale, Messi sembra quasi ballare il suo ultimo tango. Non più per vincere, ma per godersi la musica. Non più per convincere, ma per lasciare andare. Il calcio nordamericano non è la Bombonera né il Monumental, ma è il luogo dove il mito si trasforma in racconto, dove i giorni si fanno memoria.
Per gli argentini, Messi sarà sempre “el mejor” e, insieme, “el distinto”. Ha portato a casa due Copa América e un Mondiale, ha riscattato un popolo calcistico ferito, ha portato l’Albiceleste di nuovo sul tetto del mondo. Ma non sarà mai Maradona. Non per mancanza di talento, ma per mancanza di destino condiviso. Diego era il ragazzo delle villas miseria che sfidava i potenti; Messi è l’uomo gentile, quasi timido, emigrato bambino in Catalogna e tornato solo dopo anni a sentirsi argentino pienamente.
Maradona è mito politico, ribellione, caos. Messi è armonia, costanza, grazia.
E allora sì, l’ultimo tango di Messi non è una sfida urlata, ma una melodia malinconica. Non il fuoco di un genio ribelle, ma la luce calda di un artista che ha trovato, alla fine, la sua verità.
Perché se è vero che non sarà mai Maradona, è altrettanto vero che nessun argentino, in futuro, potrà più parlare di calcio senza passare da lui. Lionel Messi, l’uomo che ha trasformato il peso dell’ombra in un lampo di eternità.