Ogni scena di “Frankenstein” è fedele all’originale, e dunque una meraviglia. Nulla da aggiornare. Il bellissimo film del regista sudcoreano invece racconta la storia di un dirigente di una cartiera che viene licenziato
Il nostro film preferito – per antico affetto verso il romanzo di Mary Shelley, rincorso nei vari adattamenti – è il “Frankenstein” di Guillermo del Toro. Gran cultore di mostri, capace di riportare al gusto di oggi una storia di duecento anni fa. Passatempo scritto durante una vacanza sul lago di Ginevra, nel 1816. Pioveva sempre, colpa di un vulcano dall’altra parte del mondo. La giovane Mary aveva 19 anni, inventò un personaggio che ancora affascina. Nel film la creatura è Jacob Elordi, seminudo con la pelle marmorea che lascia trasparire le vene. Il creatore Victor Frankenstein è Oscar Isaac. Ogni scena è fedele all’originale – non c’era bisogno di aggiornare nulla. La bella, che della bestia si innamora, è la reginetta dell’horror Mia Goth.
Bellissimo anche “No Other Choice” di Park Chan-wook: il dirigente di una cartiera che licenziato perde il suo piccolo paradiso familiare, e rimedia eliminando la concorrenza. Da non dimenticare – speriamo che esca presto, sale o streaming fa lo stesso – “The Last Viking” del danese Anders Thomas Jensen. Black humour, poi una bella carneficina, e si marcia verso un finale confortante. Anker esce di prigione dopo 15 anni. Era dentro per rapina, ora vuole ricuperare il bottino. Lo ha affidato a suo fratello Manfred – un bravissimo Mads Mikkelsen, in un ruolo da perdente: non ha mai avuto tanto cervello, il timore è che stia rapidamente peggiorando e non ricordi più dove ha seppellito il borsone con i soldi. Al momento, pretende tutti imparino a chiamarlo John, come John Lennon. E’ convinto di essere uno dei Beatles, per assecondarlo il fratello recluta qualche altro matto per mettere insieme la band. Nella vecchia casa di famiglia, ai margini del bosco, si alternano commedia, tragedia e identità vaganti. Uno stilista in pensione fornisce costumi da Sgt. Pepper (di cuori solitari, ce n’è parecchi).
Per “The Smashing Machine”, Benny Safdie ha lavorato in solitario (con il fratello Josh aveva diretto la meraviglia “Diamanti grezzi”, protagonista Adam Sandler: è su Netflix, niente scuse). Suoi il copione e la regia, il resto appartiene a Dwayne “The Rock” Johnson, che qui ha il ruolo di Mark Kerr, campione di MMA, vale a dire Arti Marziali Miste. Una lotta di antica tradizione – la praticavano i greci e i romani e la chiamavano “pancrazio” – che unisce le arti marziali agli sport da combattimento come lotta libera, pugilato, kickboxing (è più facile dire cosa resta fuori, anche se il film spiega che qualche regola esiste). Mark Kerr dominò la disciplina tra il 1997 al 2009. Per contorno, una storia d’amore tormentata con Emily Blunt, punture e altri “integratori”, i combattimenti con gli amici fraterni. Dopo un po’, viene voglia di chiedere una pausa o un attimo tranquillo: quando non combattono sul ring sono liti coniugali spaccapiatti. Dovrebbero proiettarlo in due blocchi, un intervallo nel mezzo. Mille volte meglio i pugni, comunque, della tortura che Mona Fastvold – moglie e collaboratrice di Brady Corbet in “The Brutalist” – infligge allo spettatore nel suo “The Testament of Ann Lee”. Ann Lee – l’attrice Amanda Seyfried – fonda a metà del ’700 la setta religiosa degli Shaker, così chiamati perché pregavano cantando e dimenandosi. E’ un film-installazione, dovrebbero consentire allo spettatore di entrare e uscire dalla sala. Magari chiacchierare, come un tempo nei palchi all’opera. Enzo Tortora era liberale, agli occhi di Marco Bellocchio una bizzarria. Lavorava in tv con un pappagallo. Gli opposti si sono toccati nella serie “Portobello”. Uscirà l’anno prossimo su HBO MAX, la raccontiamo domani.