Quello di Guillermo del Toro è il film che più ha commosso, affascinato, incantato la Mostra di Venezia
Il campione assoluto – il film che più ha commosso, affascinato, incantato la Mostra di Venezia – è “Frankenstein” di Guillermo del Toro. Gran specialista di mostri, dalla guerra civile spagnola è passato a “La forma dell’acqua” (lui nega, ma il suo anfibio innamorato, ghiotto di uova sode, somiglia come una goccia d’acqua a quello inventato dalla scrittrice Rachel Ingalls nel suo racconto “Mrs. Caliban”, Nottetempo). Ora il regista messicano ha dato seguito alla sua passione, che risale a quando era bambino, per “Frankenstein” di Mary Shelley. Ne abbiamo viste molte versioni, tra cui una del National Theater diretta da Danny Boyle: Benedict Cumberbatch e Jonny Lee Miller si scambiavano i ruoli ogni sera: la creatura diventava lo scienziato che cerca di creare la vita. Qui la creatura è lo statuario attore Jacob Elordi, oltre due metri di bellezza marmorea. Victor Frankenstein è Oscar Isaac, che vuole creare la vita in laboratorio, aiutandosi con il fulmine. Fedelissimo al romanzo di Mary Shelley, e nello stesso tempo contemporaneo, “Frankenstein” inizia tra i ghiacci. Una nave è incagliata, qualcuno si avvicina e viene issato a bordo. E’ inseguito dalla sua creatura, che ha parecchie domande da fagli. Non tanto il classico “non mi hai neppure dato un nome”; la richiesta di una compagna con cui ritirarsi tra i ghiacci, lontani dalla vista dell’uomo.
Meno riuscito – ed è un peccato – il film tratto dal romanzo di Giuliano da Empoli “Il mago del Cremlino”. Lo ha diretto Olivier Assayas, che non ricordavamo così “televisivo”. Eppure l’adattamento è firmato da Emmanuel Carrère, non l’ultimo arrivato. Racconta lo spin doctor di Putin, Vladimir Baranov – nella realtà, era Vladimir Surkov. Grande comunicatore, ex creatore di reality show, racconta a un giornalista l’ascesa al potere del nuovo Zar, che nel film è Jude Law. Meno riuscito, perché il romanzo di Giuliano da Empoli era raccontato in prima persona. Quindi lasciava spazio al sospetto che Baranov truccasse un po’ le carte, mettendosi al centro di faccende in cui non era stato così decisivo. Dire “sono stato io”, soprattutto in questioni delicate che riguardano la Russia degli anni 90, può generare mostri.
Gianfranco Rosi dichiara di aver lavorato tre anni al suo documentario su Napoli, “Sotto le nuvole”. Sprezzando ogni modestia, ha fatto circolare qualche giorno fa una mail che annunciava “rilasciata sui social la prima foto di Gianfranco Rosi mentre riprende il Vesuvio”. Per prima cosa, invece dell’orribile calco “rilasciare” si potrebbe senza danni dire “diffondere”. La foto ritraeva Rosi in posa “fotografo d’altri tempi”: l’occhio alla macchina da presa posata sul treppiede, qualche pecora in primo piano, dietro il golfo di Napoli e le nuvole del vulcano. Si capisce che il Leone d’oro per “Sacro GRA”, nel 2013, gli ha dato un pochino alla testa. “Sotto le nuvole” ha storie più curiose e interessanti, per esempio la nave carica di grano arrivata dall’Ucraina. Servono giorni per svuotarla.