Macché Maracanã. Tifare Como è di gran moda, e significa pure tifare il razionalismo italiano
Le scie delle barche tagliano lentamente il lago, è tutto un brulicare di luci, tutto attorno le montagne sono coperte dagli alberi mentre Brunate, lassù al sole, sembra aggrapparsi alle rotaie della funicolare. Può sembrare un giorno speciale invece qui è quasi sempre così. In attesa del fischio d’inizio, siamo tutti incantati a guardare l’infinito dalla tribuna del nostro stadio. Quando Giovanni Greppi nel 1925 completò il progetto, era previsto anche un velodromo oltre alla pista di atletica. In una domenica come questa era un palcoscenico senza pari. La gradinata di fronte a noi era aperta come un sipario, era tutto studiato per ammirare il paesaggio e nel caso anche la partita perché una domenica su questi spalti, anche quando la squadra di casa perde e purtroppo capita spesso, non è mai una domenica sprecata.
E’ tutto tremendamente bianco e azzurro e abbagliante, le maglie lariane, le bandiere e sulla destra, come un missile pronto al decollo, il calcareo monumento ai caduti ispirato a un disegno di Antonio Sant’Elia. Poco oltre e appena visibile ecco il Tempio Voltiano e alle nostre spalle il Novocomum, transatlantico residenziale di Giuseppe Terragni con quel cilindro in angolo che assomiglia terribilmente al Circolo Operaio Zuev di Mosca. Inutile litigare su chi l’ha disegnato prima, il duello tra costruttivismo russo e razionalismo comasco è una questione di mesi. Meglio incantarsi sulle balaustre continue e più avanti sul profilo dell’inimitabile casa Giuliani-Frigerio. Ci abita mia zia Doda, è l’estremo capolavoro terragnesco ed è la grande ossessione di Peter Eisenman, storico architetto dei New York Five che in nome della bellezza tifa da sempre per il Como. Difficile dargli torto, ovunque ti giri c’è un gioiello, i boschi verso San Fermo sono di un verde che non ha nulla da invidiare alla baia di Rio de Janeiro. E’ uno spettacolo di natura e architettura, mi guardo attorno e penso a Gianni Brera, aveva ragione nel dire “non c’è Bombonera o Maracanã che tenga”. Lo stadio più bello al mondo è indubbiamente questo.
Giovanni Greppi completò il progetto nel ’25. Poco oltre ecco il Tempio Voltiano e alle nostre spalle il Novocomum di Giuseppe Terragni
Non a caso è intitolato a Giuseppe Sinigaglia, canottiere e lottatore, podista e saltatore, lanciatore del disco e infine, poveretto, soldato morto in guerra. Avanguardista coraggioso come l’idea di costruire un campo da calcio sulla sponda del lago e di completarlo con quel che oggi direbbero un sistema integrato, la Canottieri, lo Yacht Club e un hangar per idrovolanti. Il necessario per solcare l’acqua e i cieli. Sono tornato stamattina all’alba per rivivere l’ebbrezza che provavo da bambino, sognavo una vita da Piccolo Principe, ero nato nel giorno in cui morì Saint-Exupéry e non c’era regalo più atteso, in un anno intero, di un volo sulle acque del lago. La giornata è perfetta per volare e l’Aero Club più antico d’Europa è una vera meraviglia. Ecco come allora il profumo delle acque alpine, la cintura ben serrata, l’ondeggiare verso il centro del bacino e poi l’elica del Cessna che accelera, la velocità, il decollo e via a staccare l’acqua in direzione Villa d’Este. Chiudo gli occhi e mi sembra di tornare fanciullo… salivo, salivo verso le nuvole provando a non perdere di vista il mio amatissimo stadio, era ormai un puntino lontano mentre attorno tutto si faceva azzurro verso le Grigne e di fronte a Bellagio e all’isola Comacina, per trentamila lire quella carlinga alata mi portava fin sopra al Balbianello, ai grandi lecci tagliati a ombrello, a intuire la Velarca ormeggiata a Ossuccio, quando già mi pensavo in Svizzera ecco la virata, il sole negli occhi, la discesa lenta e sicura e l’allagaggio giusto prima dell’una. Tardare era proibito! Da mia nonna c’era una pirofila di gnocchi da sfornare, mentre già qualcuno aveva preso posizione sulla curva degli ultrà.
E’ una questione di punti di vista e il mio era di certo privilegiato. Troppo piccolo per andare allo stadio, divenni tifoso del Como sul balcone di mia nonna Emilia, splendida siciliana, gran caponate, cioccolate calde e recital pianistici nel soggiorno di casa. Le prime partite le ho viste da quell’ottavo piano. Dietro la ringhiera mi divertivo davvero, quelli in campo erano Zico, Platini, Socrates, Rummenigge, Falcao e un funambolico Maradona che sotto la pioggia disegnò uno slalom tra le pozzanghere palleggiando fin oltre la rete. Altro che gol all’Inghilterra! Ne ho viste di cose da quel balcone… dai dodici anni tra i cori della Fossa Lariana e ben felice di tenere a una squadra minore e poi tifare azzurri era una scelta pratica, stessi colori tutto l’anno anche per l’indimenticabile vittoria nel Mundial. Certo non erano anni come tutti gli altri, c’erano i primi stranieri e le squadre di provincia che a volte facevano l’impresa. La formazione la ricordo bene, Paradisi, Tempestilli, Bruno, Centi, Invernizzi, Albiero, Todesco, Mattei, Borgonovo, Dirceu e Corneliusson. Mi appaiono davanti agli occhi nel mio album di figurine e alla radio in quel trionfo corsaro del 13 gennaio 1985, gol di Bruno e di Matteoli per un Milan-Como 0-2.
Il trionfo corsaro del 13 gennaio 1985, gol di Bruno e di Matteoli per un Milan-Como 0-2. La più bella nevicata della nostra gioventù
Settecentoventitré milioni per gli otto tredici al Totocalcio nel giorno della più bella nevicata della nostra gioventù. Dissero che la formazione di Liedholm avesse sbagliato i tacchetti, che il fondo era ghiacciato ma erano tutte scuse. Quel giorno sotto gli occhi del nuovo presidente Berlusconi i rossoneri a San Siro li abbiamo davvero stesi. Fu una stagione memorabile anche grazie al mio decisivo contributo. Mi accorsi per puro caso che quando mi appoggiavo a una finestra in una certa posizione, gli avversari sbagliavano sempre un rigore. Riprodurre quella mossa con esattezza non fu affatto semplice, mi allenai moltissimo e grazie a me quell’anno prendemmo sette gol in meno e il Como arrivò al nono posto in serie A e in semifinale di Coppa Italia. Fu di aiuto anche qualche magia di José Dirceu, con quei capelli ricci attorno alla pelata che lo facevano somigliare a un maestro di samba, tre mondiali col Brasile e un sinistro velenoso che riuscì a ingannare persino Zoff, le sue punizioni a prima vista sembravano destinate alla tribuna ma con l’effetto a scendere te le ritrovavi immancabilmente nel sette. Prodezze viste solo raramente in certe puntate di Holly e Benji e più spesso in quella stagione al Sinigaglia.
A sedici anni ebbi il permesso di seguire la squadra in trasferta da Udine a Roma, da Bergamo ad Avellino. Andavo alle partite con Andrea Fogarollo, postino a Porto Ceresio, uomo coltissimo che conobbi in un’interminabile domenica in pullman, alla seconda citazione dantesca venne inevitabile chiedergli, “ma tu, che lavoro fai?”. “Il portalettere”, rispose. Le domeniche tra gli ultrà erano una strana deviazione dalla sua passione per la poesia sperimentale. Amava i perdenti con una tale intensità che presto seguendo il Como siamo finiti in serie B e poi in C1 e in C2. Sempre più in basso fino a un triste pomeriggio a Sesto San Giovanni, saremo stati una trentina sotto un’acqua battente, io a reggergli l’ombrello mentre lui correggeva le bozze della tesi su Edoardo Sanguineti, terza laurea dopo quelle in Storia e in Filosofia. Fosse stato per me l’avrei fatto amministratore delegato di Poste Italiane e invece la cadrega toccò a Corrado Passera, lui pure tifoso lariano e pazienza per il mio amico che continua a consegnare pacchi e cartoline in bicicletta in un paesino sul lago. Da quell’ultima retrocessione le nostre strade si sono divise, non ne potevo più della sua militanza, dei concerti di Guccini, dei tornei di Subbuteo e delle serate tutte uguali a rivedere “Mamma Roma” di Pasolini per denunciare e piangere insieme la sconfitta del sottoproletariato. Ci siamo presi una pausa di trent’anni, io sempre più preso dai cocktail e dal cemento, lui da nuove entusiasmanti cause perse. L’ho riabbracciato a settembre, la solita vecchia sciarpa e qualche capello bianco in tinta con gli intonaci del Terragni. Sentimentali come un tempo, quando abbiamo visto spuntare le maglie azzurre dagli spogliatoi e il lago alle spalle e abbiamo realizzato che eravamo tornati per davvero in serie A, abbiamo pianto come ragazzini.
Non eravamo certo gli unici. La passione in città si è riaccesa. C’è chi dice sia una questione di soldi, come se nel calcio ci fossero altre faccende. I denari in ogni caso ci sono e sono tanti e disponibili e dopo il decimo posto dell’anno scorso per l’undici di Fabregas un campionato d’alta classifica non è più una chimera. Coi dribbling di Paz, i fendenti di Baturina, l’astuzia di Cutrone e Diao e la forza di Da Cunha al centro, la stagione si preannuncia avvincente per il presidente Budi Hartono e anche per noi che tifiamo tutto il tempo per i suoi profitti indonesiani. La più grande industria di sigarette del sud-est asiatico va a gonfie vele, ha scelto i mercati giusti, in Cina, India e Indonesia ci sono 500 milioni di fumatori. Fumare fa benissimo al Como e visti i risultati non cambieremmo mai Hartono per un Philip Morris. Poi c’è lo star system, ogni domenica al Sinigaglia ti trovi a fianco di Hugh Grant o di George Clooney o sei intrattenuto dal concerto di qualche star. Con lo sponsor Uber ben in vista sulle magliette, il Como poi è schierato apertamente contro la lobby dei tassisti. Un vero liberale non può tenere a un’altra squadra e di questo passo al Sinigaglia ci verranno proprio tutti, dalla notaia al sacrestano, non solo gli appassionati di architettura. In centro storico la squadra è ovunque, per le strade, sui giornali e non solo. Ogni neonato in città riceve in dono una mini-maglia azzurra, cinque negozi a marchio, le borse ComoComoComo sono state in vetrina da Harrods e c’è pure una linea disegnata da Rhuigi Villaseñor, stilista emergente nello sportswear e non solo. Se tieni al Como insomma sei alla moda e pure un grande sostenitore del razionalismo italiano.
La passione in città si è riaccesa. Coi dribbling di Paz, i fendenti di Baturina, l’astuzia di Cutrone, la stagione si preannuncia avvincente
“Un amante dell’architettura non può che tifare Como”, lo diceva a tutti Peter Eisenman a Venezia durante la Biennale del 1976 con la Gazzetta sempre in tasca. Me l’ha confermato al telefono l’altro giorno, è un tifoso convinto, “per il Como e per Giuseppe Terragni… forza azzurri!”. Mi ha parlato a lungo delle speranze per la nuova stagione e come sempre del Terragni e della sua amatissima Casa del Fascio, delle sezioni e delle geometrie, dei fuorigioco e delle progressioni numeriche, della pianta della casa di mia zia che un suo libro ha analizzato in ogni minimo dettaglio e infine e con grande dispiacere del punto più dolente in città, l’abbandono dell’Asilo Sant’Elia, capolavoro ineguagliabile della storia dell’architettura che speriamo possa presto tornare alla sua funzione, magari proprio grazie alla generosità degli Hartono. Una sacra alleanza tra calcio e architettura, prendo sul serio una battuta, “un architetto che non tifa Como andrebbe radiato dall’albo”. Si convertano rapidamente perché quel giorno, quando accadrà, nel nostro stupendo stadio lo scudetto del Como sarà un’impresa leggendaria, non meno dei trionfi della Sampdoria di Vialli e Mancini, del Verona di Bagnoli, del Cagliari di Gigi Riva, del Casale di Luigi Barbesino.
Mia nonna non c’è più ma ogni volta che il Como gioca in casa, prima di varcare i cancelli del Sinigaglia passo a trovare la zia tra le pareti in spaccatello di marmo bianco della Giuliani-Frigerio. E’ l’opera assoluta di Giuseppe Terragni e siano benedetti i condomini che l’hanno conservata nella sua integrità e senza aggiornamenti che finirebbero per deturparla. Una curvatura nel legno della scala è bastata a mettermi di buon umore per la partita e così le ringhiere, le lampade, l’ascensore, il vetrocemento sulle scale. Dopo un tè e una fetta di torta, tre mesi fa zia Doda mi ha lasciato un articolo sul progetto del nuovo stadio e sulle ragioni per cui demolire il Sinigaglia renderebbe il Como più vincente. C’è pure un rendering apparso pure in un fumetto indonesiano, col prato sui tetti e una immancabile pennellata di verde verticale. Sorge allora spontanea una domanda. Quanti vogliono davvero permettere la totale demolizione di un edificio così legato alla nostra storia?
Perché non chiedere a Peter Eisenman di mettere le mani sul Sinigaglia per regalarci un progetto adamantino che preservi il passato?
Meglio forse limitarsi a qualche piccolo ritocco e un suggerimento su questo ce l’avrei. Se Peter Eisenman è un tifoso lariano, se è uno dei grandi architetti del Novecento, se ama Terragni più d’ogni altro progettista della storia, perché non chiedere proprio a lui di mettere le mani sul Sinigaglia per regalarci un progetto adamantino che preservi il passato e aggiunga con garbo quel che occorre per guardare al futuro? Uno stadio rinnovato magari solo nelle curve, che continui ad essere un palcoscenico sul lago e una testimonianza delle gloriose vicende del razionalismo italiano. Una sintesi perfetta tra storia e presente anche senza lo scudetto al petto. Alla vittoria in campionato possiamo pure rinunciare, meglio qualche piccola soddisfazione ma ancora e sempre nel nostro meraviglioso stadio perché a Como abbiamo già vinto sul terreno più difficile. In quanto a bellezza siamo invincibili e questo, a moltissimi tra noi, state pur certi che basta e avanza.