L’attaccante che vinse la Premier League con il Leicester giocherà con la Cremonese. Due squadre diverse, due paesi diversi, una storia comune
Jamie Vardy non è un giocatore qualsiasi: è una biografia che corre più veloce di lui. Un ragazzo di Sheffield cresciuto tra pub e campetti di periferia, passato dai dilettanti della working class fino alla Premier League, diventando l’icona del Leicester City campione d’Inghilterra nel 2016, l’anno della favola più incredibile del calcio moderno. Il suo è stato il trionfo della provincia inglese operaia, che sfida e batte i colossi miliardari delle metropoli.
Ora, a 38 anni, Vardy sbarca a Cremona. E di nuovo la sua traiettoria incrocia la provincia, ma in una versione diversa: non quella di birre e tute blu, bensì quella di piazze eleganti, violini, torroni e un benessere discreto, radicato nella pianura padana. Leicester era la provincia industriale, con il tessuto sociale plasmato dalle fabbriche e dai pub; Cremona è la provincia benestante, con una storia fatta di botteghe artigiane, musica colta e una certa borghesia di provincia che ha sempre guardato Milano da vicino, senza però volerne imitare i vizi da metropoli.
Eppure, in questo incontro tra mondi, c’è un filo che lega le due esperienze: il calcio come linguaggio popolare che supera le differenze. A Leicester, Vardy era il ragazzo del popolo che correva e segnava per la working class; a Cremona sarà l’eroe inatteso che porta un pezzo di leggenda internazionale in una città che non ha mai smesso di sentirsi orgogliosamente “di provincia”.
C’è anche un paradosso, tutto italiano. La Cremonese è una squadra che da sempre rappresenta il volto gentile di una città laboriosa e colta. Ma oggi alle spalle dei grigiorossi c’è una proprietà solida e potentissima: gli industriali delle acciaierie Arvedi, simbolo di un capitalismo pesante che nulla ha a che vedere con i violini e i palazzi del centro storico. Da una parte l’epopea working class di Vardy, dall’altra il capitale siderurgico che regge la società: una miscela strana, quasi surreale, che però racconta bene la modernità del calcio.
Leicester è stata per decenni la provincia industriale dell’Inghilterra centrale: città di fabbriche tessili, di pub frequentati da famiglie intere, di un tifo che sapeva di birra e panini al bacon. Un contesto dove Vardy era a casa, simbolo di un calcio popolare che parlava la lingua dei quartieri operai. Cremona, al contrario, è provincia “bene”: patria dei violini di Stradivari, dei torroni natalizi, di un artigianato raffinato che ha fatto scuola in tutto il mondo. Un luogo dove la cultura alta ha sempre convissuto con la solidità agricola e produttiva della Pianura Padana.
Eppure, se si guarda meglio, non mancano i punti di contatto. Entrambe sono città che vivono all’ombra di metropoli più grandi – Leicester rispetto a Londra, Cremona rispetto a Milano – e che hanno fatto della loro identità provinciale un vanto. Entrambe conoscono bene cosa significhi essere considerate “periferia”, salvo poi ritagliarsi momenti di gloria inaspettata: il Leicester con un titolo che ha fatto tremare il calcio mondiale, la Cremonese con le sue storiche stagioni in Serie A, capaci di trasformare una squadra di provincia in un piccolo fenomeno nazionale.
E allora il trasferimento di Vardy a Cremona non è solo un colpo di mercato, è un incontro tra due province: quella inglese, ruvida e operaia, e quella italiana, benestante e industriale. Due mondi apparentemente lontani, uniti da una maglia grigiorossa che da decenni resiste tra Serie A e Serie B, come simbolo di identità più che di trofei.
Per i tifosi, Vardy è già leggenda: uno che viene da fuori ma parla il linguaggio universale del sacrificio e del gol. Per Cremona, è l’occasione di vivere un pezzo di romanzo internazionale senza perdere la propria anima provinciale. Per Vardy, infine, è il proseguimento naturale di una carriera che ha sempre sfidato i confini, dimostrando che dal cuore della provincia si può scrivere una storia che il mondo intero è costretto ad ascoltare.