Dai film di propaganda alla fiction, sempre più efficace: l’epica e l’eroismo hanno ceduto presto il passo allo sgomento. La Seconda guerra mondiale di Spielberg e Eastwood, il Vietnam di Coppola e Cimino. Un catalogo di capolavori
“Ecco la guerra. Ecco la cosa di cui scrive Omero”, ha pensato C. S. Lewis quando si è trovato per la prima volta a combattere al fronte, e questa sua considerazione mi ha aiutato a riflettere sul rapporto tra la guerra e il racconto che ne fa il cinema americano, dove l’epica e l’eroismo hanno ceduto il passo allo sgomento, la denuncia e un insopprimibile dolore. A Hollywood il war movie rappresenta un vero e proprio genere, dal quale nascono anche sottogeneri, come i film di propaganda realizzati durante il Secondo conflitto mondiale da Frank Capra con l’intento di spiegare il motivo per cui il paese aveva deciso di entrare in guerra. Questa serie di sette documentari, intitolata Why We Fight, venne prodotta dall’US Department of War per proiezioni destinate ai soldati, ma il presidente Roosevelt decise di ordinarne la distribuzione per il pubblico. Nativo di Bisacquino, in Sicilia, ed emigrato a sette anni negli Stati Uniti, dove è diventato uno dei massimi interpreti cinematografici dell’ottimismo americano, Frank Capra accettò con entusiasmo: era rimasto estremamente colpito dal Trionfo della volontà di Leni Riefensthal, che definì “un cupo preludio all’olocausto di odio di Hitler”, e sentiva il dovere morale di realizzare qualcosa che gli si opponesse anche da un punto di vista cinematografico. Abominevole sul piano dei contenuti quanto folgorante su quello formale, Il trionfo della volontà aveva avuto un ruolo importantissimo nella costruzione della mitologia hitleriana, e Capra, che lo riteneva “di un’efficacia letale”, si trovò nella difficile posizione di rispondere con gli strumenti della ragione e della civiltà a quella retorica, aberrante e magniloquente. “Neanche Satana avrebbe potuto immaginare un super-spettacolo che facesse congelare il sangue nelle vene più di questo” scrisse, e parlò di “solennità e orpelli mistici di un’opera wagneriana con un messaggio brutale: noi siamo gli Herrenvolk, i nuovi, invincibili dei!”.
Come sempre, la strada della razionalità e della saggezza ha nell’immediato un impatto meno efficace di quello della semplificazione e degli slogan, tuttavia i documentari ebbero successo e contribuirono a creare un ambiente più favorevole all’impegno in una guerra che sino a Pearl Harbor era lontana ed estranea. Entusiasta, il presidente Roosevelt fece circolare la notizia che ben 54 milioni di americani avevano visto la serie, e commissionò a Capra anche Tunisian Victory, diretto insieme a John Huston, e Know your enemy: Japan co-diretto da Joris Ivens. Parallelamente si misero al lavoro altri grandi registi dalle idee politiche opposte, quali il conservatore John Ford e i liberal George Stevens e William Wyler, uniti dalla lotta allo stesso nemico e la difesa degli stessi ideali. Sin d’allora sono stati tuttavia i film di finzione quelli che hanno avuto maggiore effetto sul pubblico, e la tragicità della situazione portò a utilizzare anche conflitti del passato per motivare la popolazione: esemplare la scelta di Laurence Olivier, che nel pieno della Seconda guerra mondiale decise di adattare l’Enrico V di Shakespeare. Il discorso pronunciato dal re prima della battaglia di Agincourt, dove riuscì a sconfiggere un esercito molto più grande e potente, parla innanzitutto agli inglesi, che stavano vivendo, per dirla con Winston Churchill, l’ora più buia: “We few, we happy few, we band of brothers”. Il bel documentario di John Fleet Churchill and the movie Mogul racconta l’accordo tra lo statista conservatore e il produttore liberal Alexander Korda per realizzare film che oggi definiremmo motivazionali: anche nel Regno Unito nacquero alleanze tra personalità dalle idee politiche opposte. L’appello di Laurence Olivier è lo stesso di Shakespeare ai pochi e felici, definiti poi banda di fratelli, titolo usato non a caso da Tom Hanks per la serie, molto efficace, che ha dedicato come produttore alla Seconda guerra mondiale.
Ho citato Hanks per introdurre il discorso relativo a Salvate il soldato Ryan, il film che si fregia della più memorabile scena di guerra della storia del cinema. Il racconto dello sbarco a Daytona Beach è mozzafiato, ma Steven Spielberg non cede mai al compiacimento della spettacolarizzazione, immortalando la guerra in tutta la sua angoscia e il suo orrore: prima ancora di essere realistico, il suo approccio è etico, e i sentimenti espressi sono di paura, dolore, pietà e sgomento. La sequenza inizia con il dettaglio di una mano che per il tremore non riesce a reggere un bicchiere e termina con l’inquadratura dei pesci morti che galleggiano insieme ai cadaveri dei soldati, sigillando in un’immagine indimenticabile un verso di Federico Garcia Lorca: “Tambien se muere el mar / Muore anche il mare”. Il film rimane eccellente anche in seguito, ma raggiunge il suo apice in quei quindici minuti iniziali, che consentono di capire, anzi di vivere la guerra, la cosa di cui scrive Omero. E’ un’immersione tragica e spaventosa, che ci costringe a immedesimarci con chi è stato incaricato di salvare il soldato Ryan, e con pochi tocchi magistrali Spielberg riesce a farci intuire i loro sogni, gli spasmi e persino i momenti di grazia nell’accezione di Ernest Hemingway: coraggio sotto pressione. Sono moltissimi a rimanere vittime della mostruosità della guerra, come accade al principe Andrej in Guerra e pace, e Spielberg non ha paura dei sentimenti semplici, a cominciare dall’immagine del militare che invoca la madre quando viene colpito a morte. Lo sguardo dei militari è attonito come quello di Pierre Bezuchov nella battaglia di Borodino, ma nello stesso tempo fermo, perché questi soldati sanno di dover portare a termine una missione di importanza vitale: non sono testimoni sgomenti come Fabrizio del Dongo a Waterloo nella Certosa di Parma, ma artefici del destino del mondo intero.
E’ proprio questa dimensione morale, sempre presente nel suo cinema, che fa di Spielberg molto più del “fenomenale talento” di cui scrisse Pauline Kael in occasione del suo debutto. A questo riguardo è importante sottolineare come il titolo stesso del film ci inviti a riflettere su cosa succede “salvando il soldato Ryan”: purtroppo, trasformandolo nell’imperativo “salvate”, il più militaresco dei modi, la traduzione italiana ha tradito proprio l’approccio etico. Non sono convinto che il regista sia consapevole dei possibili accostamenti a Tolstoj, Stendhal, Hemingway o García Lorca: si tratta probabilmente di intuizioni spontanee, patrimonio degli artisti più grandi, e invito chiunque a mettere a confronto il film con Dunkirk di Christopher Nolan, a cui è stato spesso paragonato: efficace e certamente potente, non ha nulla di questa dimensione morale né la pietà e la poesia evidente sin dalla sequenza di apertura. E’ illuminante notare che in Lincoln, un altro magnifico film di pochi anni dopo, Spielberg abbia condensato il racconto della guerra in pochissimi minuti. Sono immagini brevi, velocissime, segnate da una confusione e una sporcizia ancora una volta estremamente realistiche, che finiscono per restituire gli stessi sentimenti del film precedente: non c’è nulla di sensazionalistico o spettacolare, perché l’orrore della guerra non rende possibile null’altro che lo sgomento. Non ci può essere neanche nulla di romantico, intuisce Clint Eastwood in Flags of our Fathers e Lettere da Iwo Jima, i due notevoli film che ha dedicato al conflitto con il Giappone. Il suo sguardo è epico, ma mantiene un approccio umanista nella descrizione dei soldati nipponici che urlano prima di andare a morire da kamikaze: in quella sequenza Eastwood arriva a essere persino empatico, riuscendo a vedere gli uomini prima dei nemici, e dimostrando una grandezza non soltanto registica. Provate a confrontare questi due film con La Battaglia di Hacksaw Ridge, impeccabile sul piano della fattura: lo sguardo umanista di Eastwood è sostituito da quello muscolare e orgogliosamente virile di Mel Gibson. Elemento certamente presente nei poemi omerici, ma è come se nel racconto delle battaglie e dei duelli fosse assente il contraltare offerto dalla tenerezza del rapporto tra Ettore e Andromaca o della pietà che prova Achille per Priamo.
Tra i moltissimi film realizzati sulla Seconda guerra mondiale quelli degni di nota finiscono sempre per avere lo sguardo umanista di Eastwood, e tra tutti si staglia La sottile linea rossa di Terrence Malick: per questo grande poeta dello schermo la celebrazione di ogni essere umano va di pari passo con quella della natura che è spesso profanata, ma rimane meravigliosa anche nel pieno dell’orrore della guerra. Il suo approccio è caratterizzato dall’incanto che si prova di fronte al mistero: nel contrasto tra la violenza dei soldati e la purezza della natura, l’eroismo non è nel gesto glorioso, né nella potenza di chi riesce a prevalere e dominare, ma nella dignità che, nonostante tutto non smette mai di rifulgere. E’ un mistero che in tutto il cinema di Malick rimanda a una dimensione trascendente, e l’incanto sembra il preludio di quanto intuiva San Paolo nella prima lettera ai Corinzi: “Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente”. Per questo maestro del cinema, inimitabile e troppo spesso malamente imitato, la guerra risulta un mezzo estremo e sempre tragico che consente comunque di intuire qualcosa di molto più grande e salvifico. E’ significativo che nei migliori film di guerra l’approccio umanista spinge i registi a parlare spesso delle conseguenze più che del conflitto in sé, come ha fatto William Wyler in Mrs. Miniver e soprattutto nei Migliori anni della nostra vita: al momento epico fa seguito una quotidianità alla quale l’orrore di quanto è avvenuto priva chi ha combattuto, e anche chi ha atteso a casa, del privilegio dell’aurea mediocritas.
Dei grandi conflitti nei quali ha partecipato l’America, la Seconda guerra mondiale e quella del Vietnam sono quelli più frequentati dal cinema: perfino la guerra civile, che pure è un momento fondante del paese, è raccontata relativamente poco, se non si conta Via col vento o altre pellicole che trattano quel drammatico periodo in maniera indiretta come il bellissimo The Beguiled di Don Siegel, film del quale ha girato un buon remake Sofia Coppola, e Piccole donne, nelle sue numerose versioni. E’ interessante notare che con l’eccezione di Lincoln nessuno dei film che hanno raccontato la guerra civile in maniera diretta abbia raggiunto un’alta qualità: Glory, Ritorno a Cold Mountain, L’ultimo Samurai. E’ poco raccontata dal cinema americano anche la Prima guerra mondiale, con l’eccezione di un capolavoro come Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick, che ha uno dei finali più lirici della storia del cinema. Se Spielberg parte da immagini di orrore, paura e brutalità per suscitare la pietà, Kubrick invoca quest’ultimo sentimento dopo aver raccontato come la guerra sia non solo mostruosa, ma finisca per far emergere il peggio dell’umanità. Nel film vengono mandati a morte tre soldati accusati di codardia per dare esempio ai loro compagni, e il regista sposa la battuta di Samuel Johnson citata da Kirk Douglas nel film: “il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie”.
A causa del suo assoluto perfezionismo e del carattere autoritario, Kubrick ha avuto fama di uomo inflessibile e gelido, ma questo film ci rivela un modo opposto di concepire l’esistenza, ed è illuminante la sequenza di Barry Lyndon con cui mette in scena una parata militare, evidenziandone l’ottusa e persino comica rigidità senza tuttavia cedere al cinismo di Georges Clemenceau, secondo cui “la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai generali”. Forse perché penso a questi capolavori, non riesco a emozionarmi troppo per l’indubbio, ma freddo virtuosismo mostrato da Sam Mendes in 1917, e preferisco ancora una volta lo sguardo umanista, sebbene appesantito dal sentimentalismo, di film come Il sergente York di Howard Hawks o Addio Mr. Chips di Sam Wood. Recentemente Edward Berger ha realizzato con efficacia una nuova versione di All’Ovest niente di nuovo, il classico di Eric Maria Remarque già adattato nel 1930 da Lewis Milestone, ma i titoli continuano a rimanere pochi, perché la Grande guerra è stata vissuta su un suolo lontano: in Europa quel terribile conflitto ha offerto lo spunto per uno dei film più belli della storia del cinema, La grande illusione di Jean Renoir.
Sono relativamente pochi anche i film sul conflitto in Corea ed è interessante notare che il più notevole è M.A.S.H., dovuto a quello spirito anarchico di Robert Altman, il quale ha affrontato il tema della guerra con una commedia. Può apparire di pessimo gusto, ma sin dalle prime sequenze Altman riesce a trovare un equilibrio perfetto perché sorride in primo luogo delle miserie umane, e il suo approccio irriverente e disincantato non è mai cinico: se lo sguardo è sull’umanità e la verità dei personaggi, si può osare la commedia anche per il più tragico e sconvolgente dei temi, come hanno dimostrato in altre circostanze Ernst Lubitsch, Charlie Chaplin e in Italia Roberto Benigni. Quando la guerra non coinvolge l’intero paese, appare come un orrore lontano, che tuttavia finisce per risucchiare e distruggere i protagonisti: è il caso ad esempio di Black Hawk Down, di Ridley Scott, ambientato in Somalia. Era ugualmente lontana la guerra civile spagnola, ma l’adattamento di Per chi suona la campana, realizzato da Sam Wood nel pieno del conflitto mondiale, riesce a immortalare l’intuizione hemingwayana secondo cui durante una guerra muore in primo luogo ciò che ci rende esseri umani. Nella drammatica situazione in cui ci troviamo in questo periodo, mi chiedo che impatto abbiano sul pubblico i war movies e con essi i film nei quali i conflitti sono sullo sfondo. La guerra è soltanto un’ambientazione come altre o il suo carattere assoluto genera nello spettatore una riflessione e una possibile reazione? Samuel Goldwyn diceva che quando voleva mandare un messaggio usava la Western Union, e si tratta di un principio sacrosanto, eppure pochi generi come i war movies implicano un’immediata presa di coscienza da parte dello spettatore rispetto ai due schieramenti che si affrontano. Come tutte le opzioni morali mette in moto qualcosa che può rimanere sottotraccia, ma prima o poi emerge, come un fiume carsico: nella sua inumana mostruosità la guerra è sincera, come del resto anche la morte.
Sono pochi i film relativi ai conflitti in Iraq e nei paesi del Golfo, e il più valido è certamente The Hurt Locker di Kathryn Bigelow, la quale, immortalando la forma di dipendenza che può scatenare la tensione generata dalla violenza, porta alle estreme conseguenze l’idea di raccontare personaggi normali in situazioni straordinarie. Ciò che rende il film notevole è l’assenza di giudizio: questa regista piena di talento sa che è la situazione in sé a imporre sullo spettatore una scelta etica, rendendo impossibile la neutralità o l’indifferenza. Un approccio ancora una volta umanista che ha generato ostilità nella critica più superficiale e ideologica, che avrebbe preferito facili condanne e prese di posizione. Non è molto diverso lo sguardo di Clint Eastwood, che in American Sniper, dopo un folgorante avvio sul fronte iracheno, racconta le ripercussioni psicologiche, ancora prima che fisiche, del trauma della guerra sui reduci. Decisamente più ricca è invece la cinematografia relativa al Vietnam, e non potrebbe essere altrimenti: il conflitto ha lacerato il paese e sono quasi sessantamila gli americani che hanno perso la vita al fronte. Esistono a riguardo anche film indecenti, quali Berretti verdi di Ray Kellogg con John Wayne, e molti sottoprodotti sensazionalistici come Hamburger Hill di John Irvin. Volendo prendere in considerazione solo gli autori dei film più celebri, sia Oliver Stone che Hal Ashby hanno realizzato film migliori di Platoon e Tornando a casa. Penso che si possa dire lo stesso anche a proposito di Full Metal Jacket di Stanley Kubrick, nonostante alcuni momenti di altissimo livello come la sequenza iniziale, in cui la rasatura dei soldati ci introduce a un mondo ottuso e violento, o quella finale in cui dei soldati americani attraversano una città distrutta mentre cantano il ritornello dei cartoni animati di Mickey Mouse.
Su quel conflitto, ma anche sul bombardamento di Tokyo di cui fu l’architetto, Robert McNamara è stato intervistato da Erroll Morris in Fog of War. Il documentario risulta notevole per la crescente fascinazione che prova il regista nei confronti di un uomo per cui aveva, sino a quel momento, un giudizio severissimo. Ministro della Difesa per Lyndon Johnson, McNamara era ai suoi occhi l’ideologo della guerra associato moralmente all’urlo di protesta “LBJ how many kids you killed today? / LBJ (acronimo per Lyndon Baines Johnson) quanti bambini hai ucciso oggi?”. Come dice il titolo del documentario, che parla di nebbia della guerra, l’evoluzione dell’intervista lo porterà a un atteggiamento molto più sfumato, e in alcuni passaggi perfino di comprensione delle scelte drammatiche di McNamara. Intendiamoci, per Morris la guerra rimane un abominio e il Vietnam un tragico errore, tuttavia Fog of War mostra una crescente volontà di comprendere come una personalità dall’indubbio spessore sia potuta arrivare a quelle decisioni. E il regista/intervistatore è il primo a sapere che nel momento in cui mette in discussione il giudizio sulla persona, incrina ogni certezza anche relativa alla guerra.
L’ammirevole libertà intellettuale dimostrata in questo documentario porta alla più scandalosa e pericolosa delle riflessioni, che riverbera tragicamente su quanto siamo vivendo: l’inevitabilità di alcuni conflitti. Tuttavia fortunatamente gli artisti devono raccontare delle storie senza offrire risposte, ma semmai porgere domande comunicando un’emozione.
E’ quello che hanno fatto Francis Ford Coppola in Apocalypse Now e Michael Cimino nel Cacciatore, gli unici autentici capolavori ispirati alla guerra in Vietnam, usciti quasi parallelamente a pochi anni dalla fine del conflitto. Il primo, sceneggiato da John Milius, è un adattamento di Cuore di tenebra di Joseph Conrad, il secondo è invece una sceneggiatura originale dello stesso Cimino, che nel film successivo, I cancelli del cielo, racconterà la cosiddetta Johnson County War, un conflitto realmente avvenuto tra il 1889 e il 1893 che vide lo sterminio di una comunità di immigrati dell’Est Europa a opera di proprietari terrieri del Wyoming: un terribile episodio dimenticato che ha avuto il merito di riportare alla luce. Il disastro finanziario del film è dovuto certamente a difetti artistici e a un budget quintuplicato nel corso delle riprese, ma anche all’aver osato toccare questo argomento. Ho voluto citarlo perché nonostante tutto, I cancelli del cielo è una pellicola piena di grandezza e bellezza, e testimonia come anche questo formidabile regista fosse interessato soprattutto agli effetti che la guerra genera sui personaggi, dilaniando le anime ancora prima dei corpi.
Prima di essere una pellicola sul Vietnam Il cacciatore è un film sull’amicizia e sull’onore, una grande storia di amore incompiuta e un ritratto indimenticabile di una comunità blue collar della Pennsylvania: basterebbe pensare alla sequenza, perfetta per composizione ed emozione, in cui i protagonisti cantano Can’t take away from me in un pub prima del matrimonio di uno di loro e la successiva partenza insieme agli amici per il fronte. Cantano tutti insieme a squarciagola e riescono a comunicarci che la felicità è fatta di attimi, come quello che stanno vivendo in uno squallido locale di un sobborgo dominato dalle ciminiere: la sequenza diviene ancora più struggente se si pensa che presto i protagonisti saranno distrutti in maniera diversa dalla tragedia della guerra. Poco più tardi ascoltiamo il protagonista, al quale il regista ha dato il proprio nome, teorizzare che quando va a caccia di cervi lui spara sempre un colpo solo: è uno degli elementi che lo rende un leader rispetto al gruppo di amici. Cimino ha voluto incentrare questa epica su gente comune, che non avrà mai un momento di gloria pubblica, e il momento più alto di tutta la pellicola è raggiunto dalla sequenza in cui il protagonista torna dalla guerra, dove ha visto con i propri occhi l’orrore, e rifiuta di andare a una festa organizzata dagli amici in suo onore. Michael (Robert De Niro) decide di ritirarsi da solo in un motel e guarda un fiume che scorre davanti alla sua finestra, indifferente ed eterno. Poi si mette la mano sulla fronte come se provasse un dolore infinito, che non è fisico, ma esistenziale. In quel gesto c’è tutta la sua solitudine e tutta la grandezza di Cimino, che ci regala subito dopo un’altra sequenza meravigliosa: dopo essersi assicurato che i compagni siano andati via, Michael decide di andare a trovare Linda (Meryl Streep), della quale è innamorato, sapendo però che lei ama Nick (Christopher Walken), il suo migliore amico rimasto in Vietnam.
E’ una scena costruita solo attraverso sguardi e battute apparentemente insignificanti: Michael e Linda parlano di tutto pur di non affrontare quello che provano in quel momento e poi decidono di fare una passeggiata. Quando escono vediamo che tutto intorno a loro è povero e squallido, tranne la ricchezza delle loro anime e dei loro cuori. Diversissimo l’approccio di Coppola in Apocalypse Now, ma non meno grande: questo regista titanico decide di immergerci nel Vietnam facendoci immedesimare con un gruppo di soldati, guidati dal capitano Willard (Martin Sheen), che risale il fiume Mekong per uccidere un colonnello che ha disertato, chiamato Kurtz (Marlon Brando). Secondo i militari americani costui è impazzito e ha fondato un minuscolo regno di cui è il leader. Nel suo viaggio Willard non si imbatte in nulla di eroico, ma solo nell’ineluttabile e squallida discesa negli inferi di chi ha rinunciato a ogni morale: se l’intervista a McNamara ci costringe a riflettere sull’inevitabilità di alcuni conflitti e le conseguenti scelte tragiche, questi due film ci ricordano che ogni guerra è sempre comunque una sconfitta.
A differenza del Cacciatore, Apocalypse Now riesce a essere nello stesso tempo realistico e visionario, ed è costruito su un crescendo di sequenze indimenticabili quanto quelle del film di Cimino. La più celebre è quella in cui i soldati americani attaccano un villaggio vietnamita mettendo a tutto volume la Cavalcata delle Valchirie, e ogni volta che la rivedo ripenso a quanto ha scritto Frank Capra di Leni Riefensthal: la mostruosità di quello che viene perpetrato va di pari passo con la potenza ipnotica delle immagini degli elicotteri che attaccano il villaggio al suono della musica di Wagner. E’ un momento di euforia e follia sanguinaria, e Coppola ci propone subito dopo un silenzio improvviso e gravido di orrore che anticipa l’arrivo di un aereo che scarica il napalm: anche queste immagini ricordano la stessa poesia di Garcia Lorca: “lo demás era muerte, y sólo muerte / e il resto era morte e solo morte”. Più avanti, nel film, il protagonista incontra un altro colonnello, chiamato Kilgore, il quale chiede ai soldati di esibirsi per lui con la tavoletta di surf: indossa a torso nudo un cappello della guerra civile mentre è in corso un terrificante bombardamento e dichiara “amo l’odore di napalm la mattina: sa di vittoria”. Lo sguardo sgomento del capitano Willard rivela cosa pensi Coppola sui signori della guerra: Kilgore non ha disertato, e nei suoi confronti continua a esserci rispetto e obbedienza, mentre Kurtz deve essere ucciso perché rappresenta la personificazione del pazzo secondo G. K. Chesterton, colui che ha perduto tutto fuorché la ragione. A differenza di quanto avviene nel Cacciatore, in Apocalypse Now non c’è più spazio per l’amicizia, l’amore e la pietà, e questo viaggio nel cuore di tenebra può terminare solo con le parole “The horror! The horror!”.