Spopola sui social la lagna sul prezzo pagato nel ristorante di pregio. Sovversivi sì, ma a proprio agio al desco dei ricchi
Non sono certa che le centinaia di scontrini dei pasti altrui che mi vengono proposti da settimane sui social siano il derivato di un pomeriggio ozioso nel quale mi sono attardata sul sovrapprezzo stratosferico di una bottiglia di Dom Perignon o “Dompe”, come dicono i burini-with-money, servita su una spiaggia del Forte, per il tempo sufficiente perché l’algoritmo la percepisse come una mia preferenza e la inserisse nella sezione “feedback personalizzato”, insieme con le novità sull’opera e sul magico mondo della moda (da giorni, per esempio, mi inoltra in modalità push la nomina del nuovo ceo di Valentino, Riccardo Bellini, senza sapere che mi è stata inviata ufficialmente dieci giorni fa a seguito di indiscrezioni che si susseguono da due mesi, in fondo l’algoritmo non controlla proprio tutto e di sicuro non la mia casella di posta, buona notizia). Mi pare però evidente che la passione nazionale per quella declinazione particolarmente sconcia del “chiagn’e fotte” che è l’esibizione della prova di acquisto di due pizze e una birra nel ristorante di pregio, nel lessico italiese “la location da sogno”, abbia superato i limiti della cronaca spicciola per mirare allo status di dramma collettivo attraverso una complicata semantica con cui, fingendosi difensori dei diritti di tutti e soprattutto del diritto comune allo champagne servito bordo lettino, quello che nel lessico nazionale ormai passa come “diritto all’eleganza”, si può mostrare a tutti la spesa di milleottocentocinquanta euro a “boccia” anche in un paese dove gli stipendi medi sono fermi da due decenni e dove fino all’altro ieri parlare di soldi era il massimo della maleducazione. C’erano cose che, semplicemente, non si facevano, tipo infilarsi il coltello in bocca o tenere il gomito sul tavolo mentre si mangiava. Se noi bambini del secolo scorso avessimo osato chiedere all’amica che sfoggiava il nuovo pallone per saltare quanto l’avesse pagato, la mamma ci avrebbe fulminate lì, al parchetto. Parlare di soldi era volgare perfino fra coniugi, Tangentopoli è scoppiata perché una moglie milanese non sapeva bene a quanto ammontasse il patrimonio del marito e aveva ingaggiato l’avvocata più abile di tutte perché lo ritracciasse (parlare di soldi no, recuperarli però sì). Insomma, fino all’avvento dei social e della rabbia sociale che hanno generato, l’Italia parlava di denaro in generale, come di un fatto politico ed economico cioè su base congiunturale, mai come di una questione individuale. E’ cambiato anche questo.
Una complicata semantica con cui, fingendosi difensori dei diritti di tutti, si può mostrare a tutti la spesa di 1.850 euro a “boccia”
Prima di mettermi alla tastiera, ho condotto una di quelle piccole indagini personali che, rispetto ai tempi delle mille telefonate che le società di ricerca ritenevano il minimo indispensabile per farsi un’idea su una tendenza e fatturavano di conseguenza, i social hanno reso relativamente facili, e mi pare che non esista altra nazione europea oltre all’Italia, non certo la Francia o tanto meno l’Inghilterra, dove si indaghino con maggiore accanimento le possibilità economiche di ciascuno e ci si indigni con maggiore facilità contro chi si permette per esempio di vendere beni di lusso a prezzi lussuosi cioè esclusivi, dev’essere un cascame dei tempi in cui Catone il censore proibiva alle ricche matrone di sfoggiare più di mezza oncia d’oro, pena la denuncia e il sequestro, in parte perché l’esito delle guerre aveva lasciato Roma in crisi di liquidità, in parte perché già allora si sapeva che la disparità economica sfacciata crea malcontento e che il malcontento finisce per rovesciare i governi. Duemiladuecento anni dopo e molte parabole sui ricchi e i cammelli dopo, abbiamo fatto però passi avanti sulla scia del moralismo, per cui all’indignazione contro chi si permette di inserire nel costo di una sogliola di Dover anche quello del biglietto aereo che la stessa ha dovuto prendere per atterrare su una tavola a Roma, si è aggiunta la vanità di mostrarsi come Robin Hood dopo le nozze con lady Marian: sovversivi sì, ma perfettamente a proprio agio al desco dei ricchi.
Non esista altra nazione europea oltre all’Italia dove si indaghino con maggiore accanimento le possibilità economiche di ciascuno
Volendo essere onesti, la pratica ha radici informative straniere serie, o per meglio dire di voyeurismo professionale e blasonato e in effetti di matrice inglese, visto che da vent’anni a questa parte il Financial Times considera la pubblicazione dello scontrino della colazione pagata nel tal ristorante di Manhattan o di Londra all’intervistato-della-settimana un momento fondamentale del suo format editoriale “lunch with” e con ragione, visto che è spesso l’unica ragione per la quale lo si legge (alla sottile incitazione al dileggio è riuscito a sottrarsi solo il più furbo di tutti, Brunello Cucinelli, che qualche settimana fa ha dato appuntamento alla redattrice in una trattoria di Perugia e l’ha imbottita di penne al sugo da ventisei euro in due e vino della casa, effettaccio-sogliola andato perduto, mitologia francescana convalidata). Con lo scontrino a due zeri minimo esibito da sconosciuti detentori di account Instagram, TikTok o Meta, che naturalmente puntano a non essere più tali, funziona secondo lo stesso principio della colazione col potente di turno di FT: tu ti rechi con i tuoi cari, meglio tre, presso il ristorante di grido del momento o lo storico caffè su una piazza famosa nel mondo che paga un botto al comune per il plateatico e mantiene stabilmente un’orchestrina per il sollazzo dei turisti seduti ai tavolini ma anche di passaggio, ordini “due coche”, rigorosamente scritto e declinato al plurale in italiano perché fa più pop, e poi esibisci scontrino e nome del gestore sul tuo account social per incitarne il ludibrio. Che le due coche in piazza San Marco o a Porto Cervo non possano costare come quelle del bar sotto il casermone alla periferia di Roma, considerazione banale, non viene mai preso in considerazione, esattamente come, ne scrivevo un paio di settimane fa, nel denunciare il differenziale fra il costo in vetrina della borsetta di lusso e quanto essa venga pagata a chi la produce cioè la assembla nessuno, nemmeno la Procura di Milano, ritiene necessario inserire nel computo finale il costo delle materie prime, della distribuzione, del personale, del marketing e del valore di marca, cioè di tutte quelle voci per le quali la stessa borsetta, senza etichetta e senza spazio sugli scaffali della Galleria Vittorio Emanuele, varrebbe un decimo di quella cifra (che poi nessuno voglia più pagarla e che la qualità del lusso presunto sia effettivamente calata, è un’altra faccenda). D’altronde, e come ormai è evidente, il fine ultimo di tutte queste manovre è la meraviglia, cioè l’indignazione collettiva, la pioggia di like e l’assalto ai forni metaforico ma anche, talvolta, reale.
Il fine ultimo di tutte queste manovre è la meraviglia, cioè l’indignazione collettiva, la pioggia di like e l’assalto metaforico ai forni
La scorsa primavera, un gruppo di attivisti contro il caro-prezzi e le “cene che costano come uno stipendio”, cit., tirò in diretta social sulla verandina di Cracco in Galleria il contenuto di quattro bottiglie di passata di pomodoro, a rigor di logica non un gesto di grande responsabilità sociale visto che dette bottiglie si sarebbero potute infilare nei carrelli della spesa solidale del primo supermercato e protestare usando invece i vecchi cartelli, ma si sa che l’“Ultima Generazione” non assomiglia in niente a quelle che le hanno precedute e che, anche senza risalire ai tempi dei bambini che le mamme contadine affidavano il primo di gennaio sulla piazza di Carpugnino ai cappellai ambulanti perché insegnassero loro un mestiere, venivano mandate a prendere il latte con i soldi contati fino all’ultima lira.
Non so per quale motivo i ristoratori siano diventati la categoria più bersagliata sui social, immagino perché tutti noi abitanti dell’emisfero ricco del pianeta, in un momento o l’altro dell’anno possiamo permetterci di buttar via venti euro per due caffè sulla piazzetta di Portofino, pubblicare lo scontrino accompagnandolo dall’hashtag #nocomment e, come scrisse qualche tempo fa Antonio Dipollina su Repubblica, far “svoltare una serata noiosa” con qualche decina di like che a certe condizioni rappresentano una bella botta di autostima. Fateci caso, nessuno esibisce la fattura della vacanza natalizia da trentamila euro nell’atollo di Baa alle Maldive e dei denari spesi per ogni singola aragosta; per avere successo e creare seguito, fare “community”, creare dibattito o, per dirla come la regina del giornalismo gossipparo Tina Brown negli anni Novanta, “buzz”, l’indignazione deve poggiare su basi democratiche, da lusso accessibile, cioè senza suscitare l’interesse della Guardia di Finanza bensì mantenendo le premesse di quella che fu, all’origine, la ragione del successo dei social, e cioè la condivisione di un momento personale comune a tutti e, soprattutto, autentico. La bolla ormai scoppiata del fenomeno degli influencer fu proprio questo: il loro giudizio presuntamente spontaneo, in gergo #nofilter; l’idea, come ovvio priva di senso, che postassero l’immagine dei cereali della colazione che stavano consumando e i giocattoli scelti per i propri bambini per puro altruismo e loro massima gioia mentre giornali e televisione, quei posti dove stanno i giornalai con hashtag dispregiativo, facevano solo marchette. Il mondo era di tutti e tutti potevano mostrare le proprie qualità e anche proprietà, che in mancanza di una Ferrari e di una villa pieds dans l’eau a Saint Tropez potevano anche essere le natiche della moglie in t shirt, piegata a infilare i piatti nella lavastoviglie e no, nessuno sapeva che fosse un reato e nemmeno una manifestazione del proprio infinito squallore.
Non è solo una questione di prezzo e di scontrino esoso: è di spacciare lusso con tempi da fast fashion. Anzi, da fast food
Ora che, secondo le ultime classifiche di provenienza Usa, aumentano gli abbandoni social e che sempre più utenti si dichiarano esausti di mettere in piazza la propria vita in cambio di una manciata di like in genere elargiti dai propri clienti, amici e famigliari, cioè da quando s’è capito che per fare fortuna con Instagram e TikTok bisogna comportarsi esattamente come i giornalai anzi come i loro editori, quindi facendo informazione vera, che costa, insomma in quest’ultimo tentativo di monetizzare i propri contenuti, molti hanno approcciato il grado uno dell’informazione, e cioè la denuncia di quello che accade loro attorno secondo la tendenza del momento. Due settimane fa erano le spiagge, di solito riprese alle sette del mattino per avvalorare l’idea che fossero vuote a causa del caro-ombrellone (gentilissimi, sappiamo leggere le ombre); sul finire di stagione siamo tornati agli scontrini. La pratica è già talmente abusata, il sistema così noto che Antonino Cannavacciuolo ha prodotto di recente un contro-video contro questa clientela parassitaria, benché vada notato che, se per tantissimi il punto della questione è il prezzo, per una minoranza, silenziosa ma potente e alla lunga fastidiosa, il punto è invece il servizio, l’ambiente, il “giro”. Sono loro a determinare quella che alla fine sarà l’ #experience di tutti, cioè quella serie di attività e di momenti per i quali, se la tizia che ti ha accolta all’ingresso con l’ubiquo, cafonissimo “salve”, ti comunica che il “minimum spending” per sederti sulla terrazza vista Etna è di cinquanta euro a persona o se un ragazzino ti chiede di alzarti dal tavolo dopo trenta minuti perché fuori dal caffè vista Montenapoleone c’è la fila arrivata dalla provincia per instagrammare un cappuccino con la schiuma logata monogram, il giorno questa minoranza che non bercia e non fa post torna da Cova o da Armani Café dove nessuno apre bocca anche se ci organizza una riunione, come peraltro è sempre accaduto (a Milano è noto che Urbano Cairo si sieda sempre, per ore, a un certo tavolo di Sant’Ambroeus, nessuno ricorda che gli sia mai stato chiesto di accelerare). Non è solo una questione di prezzo e di scontrino esoso: è di spacciare lusso con tempi da fast fashion. Anzi, da fast food.