Effetto fame. Il cibo nell’epoca degli chef e delle alghe

Da ciò che accade quando mangiamo al controllo del comportamento alimentare. Per mangiare bene e rimanere in salute non è sempre necessaria una metafisica del gusto

Che il cibo sia uno dei feticci del nostro tempo è fuori dubbio. Se cucinare è diventato qualcosa di tanto simbolico, allora i cuochi e le cuoche si sono trasformati in icone di un culto. E come tali è consentito loro spiegare, ammonire e persino rimproverare gli apprendisti che aspirano a essere ammessi nell’empireo degli chef. Probabilmente l’altra faccia della medaglia di questa tendenza così sciocca e spettacolarizzata è rintracciabile nell’interesse verso il cosiddetto healthy food, cioè il cibo sano, salutare. Non stupisce, infatti, che sempre più persone facciano attenzione a quello che acquistano, evitando, per esempio, i prodotti con una lista di ingredienti troppo lunga. Nel mercato dell’healthy food hanno trovato spazio anche alghe e funghi in polvere, bevande fermentate e integratori naturali, ma chi può dire se questi prodotti siano realmente utili a rimanere in salute e a prevenire le malattie? Chissà.

Al di là di mode e di bisogni reali o presunti, cosa accade quando mangiamo? E perché lo facciamo? La sostanza della quale il corpo non può fare a meno è il glucosio, uno zucchero che in biologia rappresenta una fonte di energia imprescindibile. E’ tanto importante che se il cervello ne rimane sfornito per più di cinque minuti si entra in uno stato di coma. Si consideri, infatti, che il cervello può utilizzare solo il glucosio come fonte di energia e non, per esempio, i grassi. Ecco perché abbiamo sviluppato dei comportamenti per poterlo accumulare. Non per nulla quando si è affamati si diventa nervosi e a volte persino aggressivi. Del resto, senza cervello non si va da nessuna parte.

Il cervello può utilizzare solo il glucosio come fonte di energia. E se ne rimane sfornito per più di cinque minuti si entra in uno stato di coma

Ma andiamo con ordine. Perché iniziamo a mangiare? Da dove arriva il senso di fame? Dal cervello, dallo stomaco o dall’intestino? La risposta più corretta è: da tutti e tre. Vediamo. In generale, il comportamento alimentare mira all’omeostasi dell’organismo, cioè a una stabilità che deve potersi mantenere nonostante i cambiamenti dell’ambiente esterno. Il glucosio però, sebbene possa essere accumulato, non rappresenta una riserva di energia a lungo termine. Questo compito spetta ai grassi, i trigliceridi, che vengono immagazzinati in cellule note come adipociti: maggiori sono il numero e il volume degli adipociti, maggiore è il grasso corporeo.

Da dove arriva il senso di fame? Dal cervello, dallo stomaco o dall’intestino? La risposta più corretta è: da tutti e tre

La struttura fondamentale che regola il comportamento alimentare si trova nel cervello: l’ipotalamo. A lui spetta il compito di secernere gli ormoni che stimolano l’assunzione di cibo e che inibiscono la fame. Nell’ipotalamo, infatti, vengono prodotti sia gli ormoni oressigeni, cioè sostanze che stimolano l’appetito, sia gli ormoni anoressigeni, sostanze che determinano, invece, il senso di sazietà. Ad esempio, se nei topi da laboratorio vengono distrutte le aree dell’ipotalamo che si occupano di secernere questi ormoni, gli animali eviteranno di mangiare anche se ne hanno un estremo bisogno o, al contrario, mangeranno senza sosta arrivando ad aumentare in maniera spropositata il loro peso.

Come fa, dunque, l’ipotalamo a sapere quando è necessario mangiare e quando, invece, bisogna smettere? Le prime informazioni, guarda caso, arrivano dallo stomaco. Questo, infatti, quando è vuoto rilascia nel sangue un ormone, la grelina, che informa l’ipotalamo di innescare il comportamento alimentare. Lo stomaco però è anche in grado di segnalare quando si sta riempiendo, cioè quanto si sta dilatando. Tuttavia, questa informazione è ancora piuttosto grossolana dato che non dice nulla sul reale contenuto energetico di ciò che si è mangiato. E’ l’intestino, infatti, l’organo in grado di segnalare quanti nutrienti sono stati assorbiti, compito che svolge rilasciando un ormone noto come colecistochinina.

Parlando degli organi che si occupano di gestire il comportamento alimentare, è importante sottolineare che alla fine degli anni Novanta del secolo scorso si è sviluppato un filone di ricerca relativo al legame tra intestino e cervello, un’ipotesi che prende il nome di gut-brain axis (asse intestino-cervello). Uno degli scienziati più attivi in questo campo è Michael Gershon, attualmente responsabile del dipartimento di anatomia e biologia cellulare presso la Columbia University. Gershon, infatti, ha promosso l’ipotesi che l’intestino possa comportarsi addirittura come un “secondo cervello”. Questa tesi, esposta in un lavoro intitolato The Enteric Nervous System: A Second Brain (“Il sistema nervoso enterico: un secondo cervello”), si basa sull’assunto che l’intestino possa mantenere un’attività motoria autonoma dal cervello. Come dire, anche lui, da laggiù, riesce ad autogestirsi.

In questo lavoro viene sottolineato come nell’intestino siano presenti un incredibile numero di neuroni che si organizzerebbero in reti complesse e che gli permetterebbero di “svolgere molti dei suoi compiti in assenza del controllo del sistema nervoso centrale.” Viene anche evidenziato che l’intestino produce il 95 per cento di tutta la serotonina presente nell’organismo. Un particolare rilevante considerando che questo neurotrasmettitore è riconosciuto come un importante regolatore dell’umore. Gershon scrive anche che le manifestazioni della malattia di Alzheimer e di Parkinson, cioè dei dannosi accumuli di proteine a livello cerebrale, sarebbero rintracciabili anche nell’intestino. Fatto non da poco dato che si tratta di due patologie che riguardano tipicamente il cervello.

A ben pensarci, ci si stupisce sempre troppo che l’organismo funzioni in maniera tanto connessa e integrata. In fondo, non è altro che un unico corpo. La fame, come si può facilmente immaginare anche per chi l’ha sperimentata solo per qualche ora, genera una forte motivazione a essere soddisfatta. Mangiare è un bisogno primario, e se viene a mancare il pane da mettere sotto i denti, difficilmente si penserà ad altri bisogni, che siano quelli relativi alla sicurezza, all’appartenenza, all’indipendenza o alla realizzazione personale.

Che la fame, in quanto bisogno primario, possa imporsi su tutto il resto, è risultato evidente in un esperimento svoltosi negli anni Quaranta del secolo scorso ad opera di Ancel Keys – biologo e fisiologo presso L’Università del Minnesota – e del suo gruppo di lavoro. Uno degli obiettivi di questa ricerca era capire quale ruolo avesse la denutrizione nelle popolazioni europee oppresse dalla guerra. Il lavoro, dati i tempi che correvano, non fu affatto facile, soprattutto considerando che i ricercatori dovevano guadagnarsi da vivere con occupazioni al di fuori del mondo accademico. Nell’esperimento, trentasei uomini furono sottoposti per sei mesi a un regime alimentare ridotto. Infatti, le calorie che assumevano ogni giorno ammontavano a circa la metà rispetto a quelle necessarie a svolgere le attività quotidiane. Ecco un breve estratto di questo straordinario lavoro:

“Ad esempio, l’uomo denutrito è debole e infreddolito, sia da un punto di vista fisiologico che soggettivo, e il suo comportamento lo conferma. D’altra parte, però, il suo modo di agire è spesso fuorviante. Appare apatico e insensibile; si comporta e si presenta come se fosse inconsapevole o incapace di percepire molti degli stimoli ordinari relativi al suono, alla vista o al tatto. In realtà, però, i suoi meccanismi sensoriali sembrano essere straordinariamente ben conservati. I test oggettivi […] indicano che la vista resiste al deterioramento causato dalla fame e che l’udito diventa addirittura più acuto. Esiste (dunque) una certa base fisiologica per il vecchio detto secondo cui la fame affina i sensi. I fatti, tuttavia, sollevano interrogativi per i quali al momento non esiste ancora una spiegazione”. Davvero interessante.

I partecipanti allo studio persero il 25 per cento del loro peso iniziale e, come si può immaginare, le ripercussioni psicofisiologiche furono intense e pervasive. Tra le conseguenze si registrarono calo della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa, problemi di ritenzione idrica, rallentamento del metabolismo, disturbi digestivi e del sonno. La maggior parte dei partecipanti sviluppò anche una vera e propria ossessione per tutto ciò che aveva a che fare con il cibo: film, oggetti e ricette. Un uomo “ne aveva accumulate molte, spesso inutilmente ripetitive. Invece di averne una sola per tutte le varianti della crema pasticcera, aveva messo insieme ricette per la crema all’arancia, alla vaniglia, al limone, al cioccolato, al caramello, e così via”. Ecco un esempio di quanto un bisogno primario insoddisfatto possa plasmare il nostro comportamento fino a limitare il nostro orizzonte percettivo alla sola necessità inappagata.

E’ interessante notare che ci fu anche una diminuzione della produzione di testosterone e del desiderio sessuale. Infatti, quegli uomini, tormentati dalla fame come erano, non riuscirono a sperimentare nessun altro desidero. La conclusione degli autori fu che “la presenza di denutrizione crea un tipo speciale di persona, diverso morfologicamente, chimicamente, fisiologicamente e psicologicamente dalla sua controparte ben nutrita.”

Come si è detto, il comportamento alimentare è controllato dall’ipotalamo che, insieme all’intestino e allo stomaco, modula la quantità di cibo che ingeriamo. Mangiare però, come si è ben capito guardando una qualsiasi delle trasmissioni televisive relative al cibo, ha anche a che fare con la sfera emotiva. Un articolo intitolato The role of emotion in eating behavior and decisions (“Il ruolo delle emozioni nei comportamenti e nelle decisioni alimentari”), scritto da ricercatori dell’Università del Missouri, ne mette in luce gli aspetti salienti. Il tipo di cibo che decidiamo di mangiare – appetitoso ma poco nutriente o sano ma meno gratificante – dipende da cosa e da quanto vogliamo sentirci appagati e dal modo in cui riusciamo a spostare nel tempo la ricompensa che deriva da ciò che mangiamo. Cosa significa? E’ meglio una porzione di patatine fritte che mi fa stare bene ora ma che potrebbe essere problematica per la mia salute domani o, al contrario, un piatto di legumi che oggi mi gratifica un po’ meno ma che domani mantiene il mio organismo in salute? Stando a quanto ci dicono gli autori di questo lavoro di revisione, la risposta a questa domanda dipende, appunto, dal modo in cui abbiamo imparato a gestire le emozioni.

Il comportamento alimentare è controllato dall’ipotalamo che, insieme all’intestino e allo stomaco, modula la quantità di cibo che ingeriamo

Come ben si sa, mangiare non è solo una necessità ma anche un piacere. Esiste, infatti, una alimentazione edonica che privilegia cibi ipercalorici ma iponutrienti e orientati al gusto, e un’alimentazione omeostatica che, invece, mira principalmente a regolare la fame.

Le persone che nelle scelte alimentari si fanno guidare dalle emozioni, i cosiddetti “emotional eaters”, sono più inclini “a scelte alimentari meno salutari e orientate al gusto in presenza di emozioni negative.” Bella scoperta, si dirà. Ciascuno di noi, infatti, conosce il potere gratificante di una barretta di cioccolato dopo una giornata stressante. La questione, però, si pone quando il cibo viene utilizzato per regolare i propri stati d’animo. Ad esempio, è stato osservato che “la somministrazione intranasale di ossitocina (cioè di un ormone che genera sensazioni di benessere) riduce il consumo di cibi appetibili […] negli uomini sovrappeso e obesi”. Ecco, dunque, dove queste persone cercano solitamente il piacere.

Il rapporto che abbiamo con gli alimenti inizia a svilupparsi fin dalla più tenera età. Infatti, diversi studi hanno mostrato che “il valore di ricompensa delle alternative non alimentari è significativamente più basso nei bambini con rapido aumento di peso rispetto ai bambini magri”. Ciò significa che i bambini che stanno ingrassando velocemente sono meno stimolati dai giochi rispetto ai loro compagni magri.

Inoltre, è importante ricordare che quando i bambini aumentano di peso, non aumenta, come negli adulti, solo il volume degli adipociti – cioè delle cellule che immagazzinano grasso – ma anche il loro numero, predisponendo così a una maggiore facilità a ingrassare di nuovo, anche dopo molti anni.

Forse, però, l’aspetto più interessante trattato in questo lavoro è il rapporto che instauriamo tra cibo e connessione sociale. In particolare, sembra che aree cerebrali simili si occupino di mediare sia la piacevolezza generata dal sapore dolce che quella scaturita da una relazione romantica. Inoltre, la privazione di cibo e di connessioni sociali evoca risposte neurali e comportamentali simili. Infatti, alimentazione e socialità sono comportamenti fortemente mediati dal cosiddetto “circuito della ricompensa”, cioè da quel sistema cerebrale che rinforza, che fa ripetere comportamenti utili alla sopravvivenza e al benessere.

Sembra che aree cerebrali simili si occupino di mediare sia la piacevolezza generata dal sapore dolce che quella scaturita da una relazione romantica

Dunque, nulla di male se il cibo ultimamente viene fortemente associato alle emozioni, sia che si tratti di identità nazionale o di sensibilità personale e artistica di chi lo cucina e di chi lo mangia. Però, come dire, stiamo attenti a non esagerare, che in fondo per mangiare bene e rimanere in salute non è sempre necessaria una metafisica del gusto. A volte, se si hanno le conoscenze corrette, basta solo avere fame.

Di più su questi argomenti:

Leave a comment

Your email address will not be published.