Il governo Modi reagisce alla bomba dei dazi di Trump riavvicinandosi alla Cina

Il dialogo fallito con Washington e la politica della Casa Bianca contro Nuova Delhi che non si piega ai negoziati. Il primo ministro indiano va a Tianjin. “L’India sta resistendo alla pressione di Trump soprattutto per dimostrare di poter condurre una politica estera indipendente”, dice Maiorano

Le relazioni tra India e Stati Uniti sono “complicate”, ma “credo che in fin dei conti i due paesi si ritroveranno uniti”, ha detto ieri in un’intervista a Fox il segretario al Tesoro statunitense Scott Bessent. Le dichiarazioni di Bessent sono arrivate nel giorno dell’entrata in vigore dei dazi americani contro l’India del 50 per cento, ripartiti equamente dalla Casa Bianca con due motivazioni: il primo 25 per cento è per ragioni commerciali, il restante 25 per cento come “punizione” contro Nuova Delhi che continua ad acquistare petrolio dalla Russia, foraggiando spudoratamente l’economia di guerra del Cremlino. Solo che Bessent ha poi svelato il trucco, e ha detto che la punizione, più che sanzionatoria per l’aiutino economico alla belligeranza di Putin, riguarda il fatto che l’India non si è piegata alle condizioni poste dall’Amministrazione Trump, insomma non ha negoziato abbastanza: “Il presidente Trump e il primo ministro Modi hanno un ottimo rapporto”, ha detto il segretario al Tesoro. “Non si tratta solo del petrolio russo. Gli indiani sono arrivati presto, subito dopo il Giorno della liberazione, per iniziare a negoziare sui dazi e ancora non abbiamo un accordo. Pensavo che lo avremmo concluso a maggio o giugno, e che l’India potesse essere uno dei primi accordi, invece ci hanno trascinati avanti nei negoziati e c’è anche l’aspetto degli acquisti di greggio russo, su cui hanno fatto profitti”. I negoziati erano iniziati a febbraio con la visita del primo ministro indiano Narendra Modi a Washington.



I due leader avevano annunciato l’intenzione di firmare un accordo commerciale bilaterale entro la fine dell’anno, ma poi i colloqui si erano arenati su un punto specifico: concedere all’America l’accesso al mercato dei settori agricolo e lattiero-caseario indiani, sui quali Modi ha promesso di “non scendere mai a compromessi”. La sua retorica serve a ricompattare il mondo dei cosiddetti annadata, coloro che forniscono il cibo all’India, che lo avevano visto come un nemico dopo la riforma agricola del 2021.



Modi sta già cercando di sfruttare a suo vantaggio quello che nei corridoi dei palazzi del potere di Nuova Delhi viene definito il “bullismo” americano – aggettivo che fino a pochi mesi fa era riservato quasi esclusivamente alla Repubblica popolare cinese, oltre che al Pakistan. Fonti dell’esecutivo indiano ieri hanno fatto circolare una nota fra i giornalisti per dire che i colloqui con Washington continuano, nonostante la tensione e anche se la delegazione negoziale americana ha annullato un viaggio in India la prossima settimana. Il governo minimizza: non vi è “alcun segnale di panico o di grave preoccupazione” da parte degli esportatori a seguito dell’introduzione dei dazi americani, e comunque le esportazioni indiane “non dipendono esclusivamente dagli Stati Uniti”. Secondo gli economisti c’è il rischio che il 70 per cento dell’export indiano verso gli Stati Uniti, dal valore di circa 55-60 miliardi di dollari, potrebbe subire interruzioni. I settori più esposti sono quelli del tessile, delle pietre preziose e dei gioielli, e poi quello dei componenti automobilistici. Il settore farmaceutico sarebbe stato esonerato dai dazi: l’India, insieme alla Cina, è il principale produttore di componenti farmaceutici di base a livello mondiale, “fondamentali per mantenere un’assistenza sanitaria accessibile negli Stati Uniti”, ha fatto sapere l’associazione farmaceutica indiana.


Il governo indiano sta giocando le sue carte, per usare un’espressione cara a Trump, anche nella politica estera. Per la prima volta dal 2018 domenica prossima Modi viaggerà in Cina, e in particolare a Tianjin, dov’è prevista la riunione del consiglio dei capi di stato dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, abbreviata in Sco. Non a caso, ieri il ministero del Commercio cinese ha detto che parte della riunione verrà dedicata al “sistema del commercio multilaterale” che verrà rafforzato tra i suoi membri. Oltre ai paesi centroasiatici, fanno parte della Sco anche Russia, Bielorussia e Pakistan.



L’ufficialità della visita di Modi in Cina arriva un mese e mezzo dopo lo storico viaggio del ministro degli Esteri di Nuova Delhi, S. Jaishankar, a Pechino, dove ha incontrato il suo omologo Wang Yi. Il riavvicinamento dell’India alla Cina è tattico: dopo anni di tensione fra i due paesi, culminati in un conflitto che è andato avanti a lungo sul confine himalayano, “in un momento di brusco cambiamento geopolitico, Modi e Xi potrebbero ora stringersi la mano, dando priorità alla stabilità economica rispetto alla rivalità radicata”, ha scritto ieri Rhea Mogul sulla Cnn. Ma c’è anche la sfida posta dalla Casa Bianca dopo la crisi fra India e Pakistan, con Trump che continua a rivendicare il suo ruolo nel cessate il fuoco, che l’India smentisce. L’ostinata politica ostile di Trump nei confronti dell’India “rischia di mettere una pietra tombale sopra due decenni di politica estera americana”, dice al Foglio Diego Maiorano, docente dell’Orientale di Napoli ed esperto di politica indiana, “e a due decenni di graduale ma significativo avvicinamento dell’India agli Stati Uniti e all’occidente”. Per Maiorano questa situazione potrà finire in due modi: “O l’India dimostrerà al mondo e ad altri paesi del Sud globale che la pressione americana non è irresistibile, oppure finirà con danni significativi all’economia indiana soprattutto in termini di occupazione”. “Non credo”, dice l’esperto, “a un avvicinamento a Pechino se non in maniera tattica, i motivi di competizione e di conflitto sono ancora troppo forti. L’India sta resistendo alla pressione di Trump soprattutto per dimostrare di poter condurre una politica estera indipendente, e di sicuro non vuole mettersi nella posizione di subordinazione nei confronti di un altro gigante”.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: “Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l’Asia”, “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.

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