I missili di Putin sulla pace di Trump

I bombardamenti russi uccidono almeno diciannove persone a Kyiv. Gli ucraini chiedono una svolta nei negoziati, vanno a New York per parlare con Witkoff e uscire dal purgatorio dei colloqui di Mosca

L’esercito russo ha colpito l’Ucraina con cinquecentonovantotto droni, trentuno missili, dei quali nove balistici, intercettabili soltanto dal sistema di difesa aerea Patriot. Sono trascorsi quattordici giorni dal vertice ad Anchorage, in Alaska, voluto dal presidente americano Donald Trump per accogliere il capo del Cremlino Vladimir Putin e portare avanti una proposta di pace. La risposta concreta di Mosca all’offerta degli Stati Uniti di far finire la guerra in Ucraina è arrivata oggi, si è scagliata contro Kyiv, la capitale, la città meglio protetta dai sistemi di difesa aerea, e meglio coperta da una rete di rifugi più capillare, agevolata dalla metropolitana, le cui fermate, durante gli attacchi dell’esercito russo, offrono il miglior riparo possibile. I missili e i droni di Mosca mercoledì hanno colpito una zona non lontana dal centro della capitale. Un quartiere residenziale, di uffici. Gli attacchi hanno ucciso almeno diciannove persone, tutte civili. Le macerie hanno intrappolato corpi, vivi e morti. I soccorritori hanno lavorato tutto il giorno, con le orecchie tese per individuare voci, rumori, qualcuno da salvare: in questi momenti, per ogni persona estratta viva dalle macerie c’è un senso di pacata esultanza, un fremito contenuto; per ogni morte cala un silenzio che sembra paralizzare anche l’affanno delle ruspe. I palazzi residenziali sono venuti giù colpiti dai droni e dai missili, altri sono stati danneggiati dall’onda d’urto, che ha investito anche le sedi del British Council e della delegazione dell’Unione europea presso Kyiv. “Questi missili e droni russi sono una chiara risposta a tutti coloro che, per settimane e mesi, hanno chiesto un cessate il fuoco e una vera diplomazia. La Russia sceglie i missili invece del tavolo negoziale”. Le parole del presidente ucraino Volodymyr Zelensky sono precise. Il Cremlino è stato puntuale nel valutare i bombardamenti: “Gli attacchi hanno avuto successo, gli obiettivi vengono distrutti, l’operazione militare speciale continua”. La Russia ammette di aver colpito esattamente dove aveva mirato, i condomini distrutti non sono un errore.



Mosca aveva ammantato di una finta calma i giorni in cui l’attivismo di Donald Trump aveva creato un’illusione di accelerazione negoziale. Aveva dosato le bombe e gli allarmi, mentre sul tavolo dei negoziati aveva mostrato agli Stati Uniti il piano russo per la pace: cessione dell’intero Donbas, congelamento della restante linea del fronte, disarmo dell’Ucraina, nessuna garanzia di sicurezza da parte degli alleati accettabile secondo gli standard del Cremlino. Vladimir Putin aveva ottenuto la foto con Trump ad Anchorage, le strette di mano, la conferenza stampa congiunta. Poi era volato via, lasciando la guerra allo stesso punto del suo arrivo ed escludendo un cessate il fuoco: nessun compromesso, l’esercito russo va avanti. Trump crede sempre a Putin, e dopo l’incontro ha accolto Zelensky e gli europei alla Casa Bianca convinto di essere più vicino a un accordo. Lo scudo ucraino-europeo aveva detto di sì a ogni offerta di bilaterale con i russi, Mosca invece non ha mai accettato.



Il Cremlino ha inviato alla Casa Bianca una foto di Trump e Putin che camminano vicini ad Anchorage e venerdì scorso il presidente americano l’aveva mostrata fiero ai giornalisti mentre in testa indossava un cappellino rosso con la scritta “Trump was right about everything”, Trump aveva ragione su tutto. La frase avrebbe dovuto essere autocelebrativa, ma oggi sembra un epitaffio sul metodo negoziale del presidente americano. In quella stessa occasione, in cui Trump avrebbe dovuto fare un annuncio riguardante la Fifa, disse che la foto era un segnale di onore e rispetto e fece una previsione: ci saranno delle svolte tra due settimane, le cose si muovono rapidamente. L’unica svolta è stata il bombardamento di Putin su Kyiv, i morti, una città colpita al centro, mentre le era stato promesso che l’incontro in Alaska avrebbe avuto come obiettivo un cessate il fuoco. Gli ucraini conoscono i russi, non si fidano, a quel cessate il fuoco non hanno mai creduto, come non hanno creduto che Putin avrebbe mai accettato di sedersi al tavolo con Zelensky per discutere di un accordo o di confini. Kyiv ha esperienza sufficiente per sapere che quando Putin parla fa quel che dice, il resto è finzione: non ha mai pronunciato la parola “tregua” e non ha mai pronunciato neppure il nome di Zelensky; il presidente ucraino rimane innominato, come tutti coloro che Putin reputa nemici.



E’ giunto il momento di nuove, dure sanzioni contro la Russia. Tutte le scadenze sono state violate, decine di opportunità diplomatiche sono state rovinate. La Russia deve sentirsi responsabile di ogni attacco, di ogni giorno di guerra”, ha scritto Zelensky, che a Washington, assieme agli europei aveva esortato Trump a dare un ultimatum a Putin per spingerlo a negoziare con serietà. Il presidente americano si era rifiutato, dicendo che un ultimatum avrebbe sabotato i colloqui. Non c’era nessun colloquio serio in corso e oggi il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov ha detto che Mosca “rimane interessata a proseguire i negoziati”: diciannove morti fanno parte della diplomazia della Russia. Le parole dei funzionari del Cremlino non corrispondono ai fatti, oggi a New York ci sarà invece una delegazione ucraina composta da due collaboratori molto vicini a Zelensky, Andriy Yermak e Sergiy Kyslytsya, per parlare di pace con il tuttofare di Trump, Steve Witkoff.


Putin ha una tabella di marcia e non intende cambiarla: il cessate il fuoco è una concessione che è pronto a fare soltanto una volta ottenuto quello che vuole, quindi la resa dell’Ucraina. Nel frattempo impegna gli Stati Uniti in un ballo diplomatico continuo, un purgatorio dei colloqui da cui c’è solo una via d’uscita: una risposta americana. Oggi, durante una discussione sull’emittente radiofonica russa Eco di Mosca, tre esperti si interrogavano sul perché Trump non reagisse mai alle bugie di Putin. Nemmeno loro avevano una risposta.

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull’Unione europea, scritto su carta e “a voce”. E’ autrice del podcast “Diventare Zelensky”. In libreria con “La cortina di vetro” (Mondadori)

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