Walmart mostra che i dazi di Trump ricadono sugli americani

Il colosso americano della distribuzione segnala aumenti settimanali dei propri costi e ora le difficoltà coinvolgono anche grossisti e agricoltori. L’impatto maggiore si vedrà probabilmente sul non food e sull’assortimento natalizio, dominato da articoli “made in China”

La prima a lanciare l’allarme è stata Walmart, colosso della distribuzione con 270 milioni di clienti settimanali, oltre 10.750 punti vendita (fisici e digitali) in 19 paesi e un fatturato da 681 miliardi di dollari nell’anno fiscale 2025. Con 2,1 milioni di collaboratori (1,6 milionisolo negli Stati Uniti), Walmart raggiunge il 93 per cento delle famiglie americane, consegnando anche prodotti freschi direttamente nei frigoriferi di 45 milioni di case. Non solo famiglie a reddito medio-basso, ma anche i ceti più ricchi, tradizionalmente vicini all’elettorato repubblicano.

Già a febbraio 2025 Walmart aveva rivisto al ribasso le stime di crescita delle vendite (dal +5 per cento a un intervallo compreso tra +3 e +4 per cento) a causa della politica dei dazi di Trump. Il mese successivo Walmart, che compra merce non alimentare in Cina per 100 miliardi di dollari, aveva tentato di far assorbire l’incremento dei prezzi dei dazi ai fornitori cinesi. A maggio, nonostante un incontro diretto con Trump avvenuto ad aprile (al quale partecipavano anche gli amministratori delegati di Home Depot e Target, altri due giganti della distribuzione Usa), Walmart ha dichiarato che sarebbe stata costretta ad aumentare i prezzi a causa della guerra commerciale innescata da Trump. E ciò “nonostante l’accordo raggiunto in quei giorni tra Stati Uniti e Cina per ridurre alcune tariffe punitive…”.

“Cercheremo di contenere i rincari sui generi alimentari, già colpiti da anni di inflazione”, ha spiegato l’amministratore delegato Doug McMillon, ma ha anche sottolineato le nuove pressioni tariffarie su prodotti d’importazione come le banane dal Costa Rica e il caffè dalla Colombia. In particolare, i dazi al 50 per cento sulle importazioni dal Brasile rischiano di far impennare ulteriormente il prezzo del caffè, già fortemente aumentato negli Stati Uniti.

Ad agosto è intervenuto anche il Food Marketing Institute (Fmi), che rappresenta i principali distributori americani. Secondo la sua indagine, l’80 per cento dei produttori ritiene che i dazi avranno un impatto su prezzi e sulle catene di approvvigionamento, mentre il 55 per cento dei consumatori ha indicato le tariffe come la principale preoccupazione. Se l’80 per cento del cibo venduto negli Stati Uniti è di origine locale, sul restante 20 per cento si prospettano rincari medi di almeno il 10 per cento. Un esempio concreto? Il bagel alle uvette, amatissimo dagli americani, che diventerà sensibilmente più caro.

Intanto Walmart continua a segnalare aumenti settimanali dei propri costi, mentre i grossisti denunciano rincari del 3,3 per cento da parte dei produttori. Le difficoltà non risparmiano gli agricoltori: nel 2024 gli Stati Uniti hanno esportato ciliegie fresche per 506 milioni di dollari in tutto il mondo, in crescita del 10 per cento in valore e del 3 per cento in volume rispetto all’anno precedente. Nella prima metà del 2025 le esportazioni di frutta fresca sono diminuite del 17 per cento in volume e del 15 per cento in valore. Anche i pomodori messicani subiranno rincari: i dazi al 17 per cento dovrebbero tradursi in un aumento dell’11 per cento dei prezzi.

Walmart, che insieme ad Amazon sta guadagnando ulteriori quote di mercato a scapito dei concorrenti più deboli, ha già annunciato un aumento del 10 per cento sui prodotti alimentari importati. L’impatto maggiore dei dazi si vedrà probabilmente sul non food e sull’assortimento natalizio, dominato da articoli “made in China”, basti pensare che il 99 per cento dei tostapane presenti nelle case americane arriva dalla Cina, così come gran parte degli articoli per la casa, il giardino, lo sport e i giocattoli. Non a caso, grandi aziende come Mattel e Nintendo hanno già comunicato futuri aumenti di prezzo.

Lo scenario di medio termine somiglia molto a quello già visto con la Brexit: dal 2016 la sterlina ha perso il 12 per cento rispetto all’euro e l’inflazione in Gran Bretagna è risultata più alta del 9 per cento rispetto alla media dell’Eurozona. Trump ha convinto i suoi elettori che i dazi li pagheranno e gli esportatori stranieri e non i consumatori americani. Ma presto anche al più sfegatato sostenitore Maga, una volta alla cassa di un supermercato, verrà il sospetto che sta accadendo il contrario.

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