Trump punta a una Fed sottomessa alla sua “presidenza imperiale”

Dopo il licenziamento di Lisa Cook, i segnali allarmanti sui rendimenti dei titoli di stato a lungo termine. L’obiettivo del presidente americano è rovesciare gli equilibri all’interno della banca centrale di qui a febbraio, ma così si rischia una crisi di fiducia nei mercati e nel dollaro

Chi si chiedeva come i mercati avrebbero reagito al licenziamento in tronco di Lisa Cook, membro del consiglio della Federal Reserve, decretato da Donald Trump come fosse un ordine esecutivo, oggi ha guardato non tanto agli indici di borsa che pure hanno aperto in ribasso, ma a più allarmanti segnali: i rendimenti dei titoli di stato a lungo termine (trentennali) in rapporto a quelli a breve (due anni). La differenza si sta avvicinando a quella del 2020, l’anno della pandemia. Allora superò i due punti percentuali, ora siamo vicini a un punto e mezzo. L’ascesa era cominciata nel 2023 per colpa dell’inflazione, dall’insediamento di Trump procede a passo di marcia. E oggi è stata una giornata di grandi vendite. Il gigantesco debito americano è considerato meno sicuro e lo è ancor meno quando la banca centrale perde la sua indipendenza, spiega al Financial Times Marieke Blom, capo economista alla Ing, la grande banca olandese.


L’obiettivo di Trump è controllare la Fed rovesciando gli equilibri al suo interno di qui a febbraio, quando potrà rimpiazzare quel “mulo ostinato” di Jerome Powell con un governatore a lui vicino. Il board che guida la banca centrale è un’agenzia del governo i cui sette membri sono nominati dal presidente, sovrintende ai consigli delle dodici Fed regionali scelti con procedure complicate, ma anch’esse influenzabili politicamente. Eppure il “sistema della Riserva Federale” istituto nel 1913 e più volte riformato, è definito come “una struttura unica, sia pubblica sia privata, indipendente”. L’indipendenza non sempre è stata rispettata. L’esempio più clamoroso è quello di Richard Nixon e del suo governatore Arthur Burns. Nel Ferragosto 1971 misero fine al rapporto fisso tra dollaro e oro stabilito nel 1944 a Bretton Woods, ma Burns, per favorire la rielezione di Nixon nel 1972, stampò moneta a manetta. L’inflazione balzò al 12 per cento e aprì la strada dell’iperinflazione aggravata poi dalle due crisi petrolifere. La crisi era così grave che nel 1978 fu necessario riformare la Fed. Il presidente Jimmy Carter scelse Paul Volcker, figura gigantesca fisicamente e professionalmente. Confermato da Ronald Reagan, che lo criticava lasciandogli però piena libertà d’azione, stroncò l’inflazione anche a costo di una recessione triennale. Ma Trump sostiene di ispirarsi a Nixon e alla sua “presidenza imperiale”.



“Siamo in acque inesplorate” titola il Wall Street Jorunal. Chi sarà il nuovo Burns e cosa accadrà ai prezzi spinti dai dazi, dalla svalutazione del dollaro e dalla riduzione dei tassi d’interesse? La conquista è già a buon punto. Trump ha nominato governatore Stephen Miran, suo consigliere economico, il quale giura che i dazi ridurranno l’inflazione e vuole che il presidente possa licenziare tutti i governatori della Fed a suo piacimento e non solo per giusta causa come prescrive la legge del 1951. Nel primo mandato The Donald aveva piazzato Michelle Bowman, a lui fedele, mentre può contare su Christopher Waller il quale aspira alla poltrona più alta. Basta che metta un amico al posto della Cook e il ribaltone è fatto, proprio come è successo alla Corte suprema. Ma non sarà facilissimo. Lisa Cook non molla, la denuncia di aver falsificato i documenti per ottenere un mutuo di favore non sembra sostenuta da prove e viene da Bill Pulte, un trumpiano alla guida della agenzia che gestisce i finanziamenti per gli immobili federali. Si va ai tribunali e probabilmente fino all’alta corte. L’avvocato Abbe Lowell – che ha avuto come clienti anche il genero di Trump Jared Kushner e Hunter Biden – fa sapere che la richiesta del presidente “manca di qualsiasi procedura, fondamento o autorità legale”. Intanto l’ombra di un’economia sottoposta ai diktat discrezionali della politica trumpiana s’allunga sulla credibilità del dollaro e la sostenibilità del debito, i due corni dell’ “esorbitante privilegio” americano, come lo aveva chiamato Valéry Giscard d’Estaing il presidente francese che s’inventò il G-3 poi diventato G-7 per affrontare le gravi crisi degli anni ‘70. Purtroppo oggi non c’è un Giscard in Europa né un Reagan in America.

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