Un diritto inalienabile che un paio di generazioni fa nemmeno sapevano che esistesse. Poi è arrivata la transumanza in autostrada (niente “partenze intelligenti”), la lasagna in spiaggia e i primi pionieri in montagna. Un mondo perduto
Quanto sono lagnosi. Un anno si porta il lamento per l’overtourism. Quello successivo si scatena l’angoscia emergenziale per le sdraio vuote. Un anno si impreca contro il turista straccione e sudaticcio che scambia l’Italia per il suo souvenir. Oggi invece ci si interroga allarmati, così da un mese all’altro, da quale miserabile slum dickensiano siano stati inghiottiti i bagnanti della riviera romagnola? Prima era il rimprovero all’iperconsumismo vacanziero. Quest’anno tocca all’Italia indigente e da film neorealista in cui Umberto D. e i protagonisti di “Ladri di biciclette”, Antonio Ricci e Bruno Ricci, non potevano certo permettersi un abbonamento stagionale ai bagni della Versilia, senza nemmeno lo scudo di un salario minimo. Una lagna infinita su una conquista sociale oramai considerata alla stregua di un diritto universale e inalienabile che un paio di generazioni fa nemmeno sapevano che esistesse: la vacanza. Il dibattito più grottesco e noioso che si possa immaginare. Ulteriore esempio di un mondo schiacciato sul presente, ignaro delle trasformazioni storiche, dell’Italia così com’era prima della nostra data di nascita, di come eravamo e di come un popolo davvero lacero, devastato dalla guerra, con le città in macerie e il morale a terra fece il suo ingresso, “urlante e scalciante”, nella modernità del benessere, del consumo diffuso, di un livello di vita che persino i ceti nobiliari dell’Ottocento si sognavano soltanto. C’era la “villeggiatura”, ma la villeggiatura era tutta un’altra cosa dalla “vacanza”, era elitaria, privilegiata, aristocratica. In mezzo, e in Italia solo in una manciata di anni, c’è l’irruzione disordinata e screanzata delle “masse”, del popolo. Insomma, siamo arrivati noi, quelli dell’immenso ceto medio. Ed è stata “vacanza”. E siamo sempre noi, gli ingrati e perenni lamentosi, personaggi e interpreti della lagna collettiva che sta ammorbando l’estate del 2025.
Che poi, per capire che cos’era l’agosto delle vacanze di massa di cui oggi ci lamentiamo, basterebbe ricordarsi di qualche film e di qualche libro che descrivono ciò che c’era solo qualche anno prima. Guardare “Roma” di Federico Fellini con la famiglia etnicamente trasteverina in canottiera, impegnata nella grande abbuffata con la tavola apparecchiata in piazza. Oppure leggere le pagine di Gaetano Afeltra, meridionale verace trapiantato nella metropoli del nord, che nella canicola estiva ascolta estasiato il chiacchiericcio dei vicini con le finestre aperte, liberi dalla corvée lavorativa che poi a Ferragosto sciamano sui bus che li portano all’Idroscalo, sulla strada (“il Forlanini”) dove si incontra “il barbun” cantato da Enzo Jannacci. Poi tutto cambia, e si riorganizza per grandi blocchi. Oggi le vacanze sono frammentate, individualizzate, orientate su target sempre più specifici. Nella sua fase aurorale la vacanza popolare andava per grandi blocchi, per grandi insiemi, caratteristica appunto di una società di massa. C’erano le fabbriche, creatura novecentesca in via di definitiva dismissione, che chiudevano all’inizio di agosto e riaprivano alla fine del mese: non è che si partiva a giugno per una settimana a Formentera. Oggi ogni giorno c’è il colore di un bollino, rosso o giallo o altro che segnala l’intensità del traffico. Prima i giorni da segnare erano due: il “grande esodo” e il “grande ritorno”. I giornali che amano sempre le definizioni a effetto chiamavano questi due giorni di transumanza come la trincea dell’“esercito di vacanzieri”. Ci familiarizzammo, noi del centro-sud, con l’uscita autostradale di “Milano Melegnano”, termine fino ad allora abbastanza misterioso, traguardo finale dell’esercito di vacanzieri, tutti insieme, in blocco di ritorno dall’Adriatico (non erano state ancora inventate le vacanze intelligenti, le partenze intelligenti, i ritorni intelligenti).
Ma si era ancora ebbri di mare. Le canzoni dell’estate erano immerse nelle atmosfere del mare, nella versione più pop di “Pinne, fucile e occhiali” e “Abbronzatissima” cantate da Edoardo Vianello, o in quella erotico-sentimentale del “Sapore di sale” di Gino Paoli. Anche se la vita negli stabilimenti, tra i castelli di sabbia regolarmente abbattuti da qualche onda anomala non è che poi fosse così elettrizzante. Per dire, nella maggior parte degli stabilimenti all’alba degli anni Sessanta ancora molto spartani (mica dappertutto c’era il jukebox della spiaggia di Castiglioncello nel “Sorpasso”) non c’era nemmeno la tentazione di un bar, di un chiosco, figurarsi di un ristorante o di un distributore di snack. Si portava tutto da casa, e lì ebbe il suo momento di splendore la figura del “fagottaro” che oggi, grazie alla gastro-invasione delle spiagge e persino dei sentieri di montagna, gode di pessima reputazione. C’erano solo le fontanelle da cui scorreva un’acqua da rendere frizzante con una polverina magica che si chiamava idrolitina, perché le bottiglie della minerale con il gas che provoca i ruttini ai pupi già adolescenti non erano ancora state inventate, mentre si usavano bottiglie che erano di vetro e non intasavano i mari di microplastiche (adesso, sazi di ogni minima particolarità di target, abbiamo l’acqua minerale né liscia né gasata che a Roma camerieri e avventori chiamano “leggermente”, senza ulteriori specificazioni). Direttamente da casa, se era di domenica, o ancora più di frequente dalla pensioncina economica se il soggiorno era più prolungato, arrivavano cotolette, salami, e di frequente timballi e lasagne o frittate con i maccheroni che i bambini, cresciuti con il racconto della fame in guerra, consumavano fino a rimpinzarsene, già muniti di sdraiette o sgabellini casalinghi o sotto gli ancora radi ombrelloni, oppure, colmo del lusso di massa, sul balconcino dotato di tavolino antistante la cabina, la quale fungeva non solo come deposito di costumi e asciugamani, ma come duplicato domestico a poche decine di metri dalla riva.
E’ in quelle dimore, così ben descritte da Fabiana Giacomotti su queste pagine, che si forgiava tra le madri apprensive e i bambini piagnucolosi la leggenda delle ore infinite necessarie per smaltire la digestione e poter tornare in acqua: imbottiti di cibo, era del resto inevitabile (poi subito dopo arrivava la merenda, per scacciare lo spettro della carestia che aveva funestato l’Italia devastata dalla guerra perduta e dal ricordo delle tessere annonarie). Spesso le cabine degli stabilimenti più eleganti e dai nomi stereotipati (il primato era e resta il “Kursaal”) venivano decorate con leziose strisce colorate che richiamavano cromaticamente le grandi ed eleganti tende destinate a riparare la clientela selezionata delle spiagge deserte e di lusso di inizio secolo, come quella del Lido di “Morte a Venezia” dove il professor Gustav von Aschenbach creato da Thomas Mann si invaghì dell’efebico Tadzio prima della sua definitiva rovina fisica ed esistenziale. Insomma tende aristocratiche in versione ostiense, per chi abitava a Roma: “Morte a Pomezia”, secondo la geniale definizione di Andrea Minuz.
Molti bambini, e molte donne e mamme. I padri e i mariti arrivavano per il fine settimana. Ma molte canzoni dell’epoca in cui l’Italia scopriva le vacanze lasciavano immaginare pause paradisiache per i maschi coniugati e lasciati a lavorare in città. Una di Domenico Modugno era esplicita: “La moglie se ne va e il marito sta in città / il povero marito rimane incustodito”. L’incipit della canzone induce a pensare che le geremiadi sul clima surriscaldato non siano proprio così nuove: “Arriva l’estate, che caldo infernale, le case infuocate, ognuno sta male”, e del resto proprio negli stessi anni Bobby Solo gorgheggiava “domenica d’agosto che caldo fa, la spiaggia è un girarrosto”, eccetera. Ma il prosieguo della canzone di Modugno apre uno squarcio sulle nefandezze del patriarcato: “La moglie se ne va e il marito pensa già / A quella scappatella che da tempo vuole far”. Ma poi, ecco deflagrare il sessismo accoppiato al più fiero classismo: “Oh quant’è bona la cameriera… che sta sempre in sottoveste” (per i più giovani: c’era un capo di abbigliamento femminile che si chiamava sottoveste, strano ma vero).
Era molto problematico andare lontano dalla città dove si abitava. Non c’erano i voli low-cost che ti portano dall’altra parte del pianeta. Le autostrade fiorivano, ma lentamente. Un viaggio lungo in macchina – prima l’utilitaria, poi sempre più su in potenza, cilindrata e status symbol, l’ascensore sociale funzionava alla grande – era faticoso, ancora poche autostrade, pochi punti di ristoro, persino poche pompe di benzina che autarchicamente e con poca concorrenza venivano chiamate Agip, sic et simpliciter: “Mi fermo al prossimo Agip”. Muniti di sacchi a pelo, e a bordo di 500, Maggiolini Volkswagen o 2CV, quelle con il cambio di marcia assurdo e mai più visto, i giovani non potevano andare oltre le colonne d’Ercole della Croazia ancora Jugoslavia, da dove tornavano estasiati dalla scoperta della cucina esotica che poi erano i banalissimi “cevapcici”. Oppure in Grecia, con la combinazione corridoio a terra nello scompartimento cuccette e poi sul ponte di navi e traghetti (e al ritorno elogio dei “souvlaki”, quando la gastronomia globalizzata era lontana). In più non esistevano le carte di credito e prima di partire ci si doveva attrezzare con strumenti molto scomodi e laboriosi come i “traveler’s cheque”. Eppure, a fatica ma inesorabilmente, si stava realizzando in Italia il progetto visionario di Henry Ford, il geniale inventore della catena di montaggio, secondo il quale il mondo sarebbe cambiato quando gli operai avrebbero potuto comprare le macchine che stavano costruendo: ecco, è stata la motorizzazione di massa a segnare il passaggio (in pochi anni, il “miracolo economico”) dall’Italia povera che conosceva il viaggio solo per emigrare fino al viaggio di vacanza. Sulla strada, on the road, la vacanza ha portato la modernità. Mentre ora l’abitudine porta solo lamenti e recriminazioni e stupidaggini.
Che poi nella fase aurorale delle vacanze di massa non c’era nemmeno tanto traffico per le strade. Nel “Sorpasso” (anno 1962, in piena ebbrezza da boom), sull’Aurelia ancora a una corsia si andava spediti lungo la strada sgombra strombazzando con la baldanza guascona di Gassman, e Trintignant finiva i suoi giorni giù dal dirupo all’altezza di una curva (Calafuria) che oggi non faresti a più di trenta chilometri orari. Per conoscere l’effetto collaterale indesiderato della motorizzazione di massa lungo le strade fuori città occorrerà aspettare il 1979 con un film bellissimo di Luigi Comencini, “L’ingorgo”, che racconta il paradosso delle vacanze per tutti, la mobilità che diventa immobilismo, il culto della velocità annichilito da un blocco di lamiere infuocate dove pure si intrecciano nuove storie, come nei film apocalittici in cui si imbastiscono tra i sopravvissuti nuove relazioni prima della fine del mondo.
C’era la scoperta della strada. La scoperta della spiaggia, con la riviera romagnola fantasticata come luogo di indicibili avventure erotiche con le giovani e disinibite “tedesche”, che poi potevano essere norvegesi ma restavano pur sempre “le tedesche”: mica come la raffinatezza di Forte dei Marmi (raffinatezza poi peraltro bruscamente ridimensionata dai fratelli Vanzina con una pietra miliare della sociologia vacanziera come “Sapore di mare”). La scoperta del mare, appunto, del tutto sconosciuto a chi era nato lontano dalle coste (il fascismo, per la nazionalizzazione delle masse, portava i ragazzi e le ragazze sulle “Littorine” verso le località marittime anche per dare un aspetto meno astratto alla retorica del Mediterraneo mare nostrum). E poi la scoperta della montagna d’estate (e anche di inverno: lo sci diventerà di massa, e con gli strepitosi profitti della Rossignol e delle altre marche di attrezzature sciistiche, solo con i successi della “Valanga azzurra” di Thoeni, come è raccontato nel documentario di Giovanni Veronesi). Una dimensione esistenziale fino a pochi anni prima riservata alle persone anziane o alle famigliole senza tante pretese. Nelle valli alpine non c’era aria di B&B ma c’erano i garnì, per i più tradizionalisti la massima frontiera della sregolatezza escursionistica, perché non prevedeva la consumazione in albergo di pranzo e cena.
Non c’erano molte attrezzature. Trovare sulle rocce dolomitiche una rara “ferrata” veniva vissuta come l’emozionante prova del fuoco di un talent modello survival. Al posto delle spaziose e confortevoli seggiovie contemporanee, solo seggiolini singoli traballanti sugli abissi per raggiungere le cime e i rifugi in quota il cui tasso di mostruosa pericolosità, guardandolo oggi, non veniva nemmeno percepito in una cultura totalmente aliena dall’isteria allarmista e iperprotettiva dei nostri giorni. Precursore con la mia famiglia di interminabili soggiorni estivi in un posto incantevole all’ombra delle Pale di San Martino di Castrozza che si chiama Bellamonte ed era totalmente estranea ai cliché e ai circuiti delle località più rinomate e lussuose, devo essere grato al destino, all’alba delle vacanze di massa anni Sessanta, per avermi fatto scoprire pratoni, boschi, torrenti, ruscelli (e persino i cori montanari, con le camicie di flanella a scacchi e i pantaloni alla zuava) che un mio coetaneo di oggi, con i boschi a ingresso pagante, sbarramenti, code interminabili persino per una mezz’ora di ricerca dei funghi (e si aggiunge pure l’ossessione degli orsi), non potrebbe nemmeno immaginare. Hanno lasciato sdraio e ombrelloni per andare lassù sulle montagne per la disperazione di Messner, e non se n’è nemmeno accorta la lamentazione mediatica sulla nuova miseria dell’italiano costretto a rinunciare alla vacanza per la mancanza di un salario minimo fissato per legge. In vacanza, ma non intelligente.